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È vero, nella vita di ciascuno di noi, della nostra comunità, esistono “decenni in cui non accade nulla e poi esistono settimane in cui accadono decenni”. Avevo 22 anni quelle settimane del 1992, tra il 23 maggio e il 19 luglio. Ricordo le prime notizie, lo sconcerto iniziale, lo smarrimento, la rabbia, l’indignazione e poi la voglia di fare qualcosa.
Non esistevano ancora, almeno come adesso, i telefonini, men che meno i social, ma le notizie correvano veloci lo stesso.
Non so dire come e quando, ma ci ritrovammo tutti assieme. Un lutto collettivo, forse il bisogno di stare assieme, quei momenti hanno segnato la mia vita, come quella di tanti altri e hanno segnato anche la storia di questo Paese nei decenni successivi. Forse ciò che sono adesso, ciò che siamo, per gran parte, lo devo, lo dobbiamo, più di tutto a quelle settimane.
I trent’anni successivi fino a oggi hanno prodotto una intensa stagione di partecipazione e di impegno collettivo, forse per dirla come Dostoevskij, sono stati “l’anima del popolo”, le ragioni e il sentimento, seppure ancora di una parte, ma sicuramente della maggioranza dei palermitani.
Trent’anni di iniziative e di lotta alla mafia che è stata, allo stesso tempo e allo stesso modo, lotta per la libertà, per la giustizia e anche per la pace. Sì, per la pace di una città e di una terra che hanno vissuto una lunga stagione di guerra, di morti ammazzati, di bombe, di corpi dilaniati, di lacerazioni sociali ed esistenziali.
Ma siccome è sempre l’esistenza lacerata che crea una insopprimibile necessità di riscatto, a noi spetta ancora il compito di impedire che al sogno della rinascita subentri il disincanto, quello che spezza le gambe alla fiducia, quella cioè che è l’opposto dell'indifferenza.
Perché, noi non siamo stati indifferenti, noi non saremo mai indifferenti e rassegnati. Nessuna rassegnazione ci è consentita, né nei confronti della politica della mafia, né nei confronti della mafia della cattiva politica, di quella che parla di Falcone e Borsellino e poi scende a compromessi e fa affari e “picciuli” con la mafia, di quella che esercita il potere della corruzione e di quella che corrompe e inquina le istituzioni.
Palermo lo sappiamo, era ed è ancora “una città complessa, la città spugna, che beve denaro pubblico, ancora molto in basso nelle graduatorie del reddito e ancora molto in alto in quella dei consumi”, nonostante il '92, nonostante cioè oltre cento anni di lotta alla mafia, nonostante i La Torre, i Dalla Chiesa, i Chinnici, i Mattarella, i Rizzotto e gli Orcel e tanti, troppi altri.
Palermo è ancora “sontuosa e oscena”, come scrisse Pippo Fava.
Ma Palermo, come la Sicilia, era e resta un laboratorio politico e sociale che spesso anticipa il peggio e il meglio. Tante volte viene da chiedersi: ma quanta “gramigna, più tenace della coscienza” i collusi e i corrotti devono spargere per i loro sporchi affari? Quando lo Stato? E quale Stato, senza giustizia per gli innocenti?
Vedete, se non si capisce che in Sicilia, la lotta alla mafia è stata ed è ancora lotta per i diritti, come lo è stata per oltre cento anni di storia, non si comprende come questa lotta sia stata allo stesso tempo e allo stesso modo lotta anche per il diritto. È in nome del diritto ai diritti che c’è stata una lotta popolare, che affonda le radici nei fasci siciliani dell’800 e nelle lotte contadine del dopoguerra, è in nome del diritto ai diritti che questa lotta è diventata legge: “Ai mafiusi c’amma a livari picciuli” (ai mafiosi dobbiamo togliere i soldi) diceva Pio La Torre, perché prima di altri, capiva che i mafiosi più che il carcere soffrono la paura di perdere la roba, i soldi. E allora “segui i picciuli”, sequestra e confisca e adesso pure recupera, rigenera, riutilizza.
Il 23 maggio saremo ancora lì, sotto l’albero Falcone, come a luglio saremo in via D’Amelio, come ogni anno da trent’anni a questa parte, ci saremo con la stessa determinazione, contro tutti quelli che pensano di potere essere o diventare i padroni della vita degli altri, perché il futuro di questa terra non può essere la violenza e la sopraffazione, anche quando la violenza è il “silenzio degli intellettuali che diventa tradimento”.
Questa è la nostra resistenza, la nostra lotta di liberazione. Forse “possiamo essere minoranza, ma non saremo mai minoritari”, diceva Pio La Torre, e per questo non ci possiamo fermare. Senza giustizia, per i morti e per i vivi la pace è solo la farsa del potere, per addomesticare le coscienze e le persone. Per noi celebrare e ricordare il 23 maggio, come abbiamo fatto per Portella della Ginestra, lo scorso primo maggio, o come abbiamo fatto per Peppino Impastato a Cinisi lo scorso 9 maggio, significa, chiedere giustizia, per avere giustizia per tutti, tutti i giorni.
Per noi ogni giorno è il 23 maggio, perché noi siamo “Capaci” di indignarci, perché noi non siamo indifferenti e rassegnati, perché la mafia, come la guerra, è inaccettabile sempre, perché offende la dignità di un intero popolo e perché la mafia come la guerra è sempre una montagna di sangue e di merda.
Mario Ridulfo, segretario generale della Camera del Lavoro di Palermo