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Venti anni fa esatti il Circo Massimo accolse tre milioni di persone. Fu la più grande manifestazione della storia repubblicana. Lavoratrici e lavoratori, giovani studenti e trentenni precari, pensionate e pensionati, invasero Roma, ma non solo. Sotto le bandiere della Cgil si raccolsero centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti dei partiti di sinistra, dei Ds e di Rifondazione, ma anche centinaia di migliaia di democratici, diversi anche iscritti ad altri sindacati.
Tutti figli di una stagione d’impegno civile (erano gli anni dei comitati, dei girotondi, dell’onda lunga di una globalizzazione delle ingiustizie che aveva visto reagire movimenti laici e cattolici, scout e centri sociali) che ritenevano “estremiste” non tanto le parole d’ordine del “cinese” (alias Sergio Cofferati), ma l’attacco portato ai diritti dei lavoratori (l’articolo 18) e, più in generale, a un “patto sociale” che il berlusconismo delle rendite, delle leggi ad personam, dell’attacco all’ambiente (ricordate Lunardi e le leggi obiettivo?), minacciava nelle sue fondamenta.
Era il blocco che andava dai Parisi di Confindustria ai grandi speculatori delle coste sarde, dalle temerarie sparate sulla resistenza come “guerra civile” e dei giovani di Salò da perdonare al massacro sistematico dell’indipendenza della magistratura, quello a cui quella piazza si contrapponeva. In un clima reso più teso dal barbaro omicidio avvenuto pochi giorni prima da parte dei delinquenti delle Br contro il professor Biagi (il secondo giuslavorista colpito, dopo D’Antona nel 1999).
La manifestazione della Cgil fu un punto “cruciale” di quella lunga stagione d'iniziative e di partecipazione, che partendo dalla critica alla debolezza della narrazione della politica tradizionale a sinistra (il Moretti di “con questi dirigenti non vinceremo mai”), non si poneva l’obiettivo di proporre un altro terreno di gioco – quello dell’autosufficienza del sociale, della “società civile” come alternativa alla rappresentanza istituzionale (anche se tentativi in quella direzione furono fatti, in particolare dal partito di MicroMega e dal solito Travaglio) – ma quello, bensì, di rigenerare la sinistra politica secondo una prospettiva di governo delle trasformazioni, in un’ottica di riduzione delle disuguaglianze attraverso il lavoro, la sua centralità, e attraverso una nuova visione del welfare delle persone (per citare lo stesso Cofferati), rimotivando un popolo e rimettendolo “in connessione” con i suoi rappresentanti istituzionali.
Tanto è vero che, in quegli stessi mesi, evidente era l’impegno delle donne e uomini della Cgil di evitare nella sinistra tradizionale quella separatezza da un lato e quella sbornia “neo centrista” rappresentata dal “blairismo” dall’altro, che altro non erano (e sono state) poi minoritarismo per un verso e subalternità al pensiero mercantilista e alla destra per l’altro (in una versione solo un “poco più gentile ed educata”). Impegno dentro Rifondazione comunista (contro la teoria delle due sinistre) e soprattutto dentro i Ds contro la deriva centrista (fino a essere, di fatto, come Cgil un pezzo portante in termini di elaborazione politica, ma anche di partecipazione organizzativa del cosiddetto “correntone”).
Premesso che questa non è la sede per ricostruzioni storiche e politiche più precise e di dettaglio, e non è neanche la sede per riflettere sugli errori e sulle diverse valutazioni anche fra noi all’epoca (nonché sulla stessa nostra sconfitta politica, visto che poi vinse il “blairismo all’italiana”) relative a quanto facemmo (personalmente mi ricordo solo del clima di entusiasmo che io, giovane precario Rai e funzionario di partito, vissi da una posizione privilegiata, scelto direttamente da Giovanni Berlinguer, il fratello di Enrico, insieme a Roberta Lisi e Gianni Zagato, per dargli una mano in quell’avventura curiosa che si concluse al congresso di Pesaro dei Ds), ritengo che di quella stagione - rappresentata nell’immaginario collettivo da Sergio Cofferati sul palco del Circo Massimo - permangano alcuni insegnamenti validi (e anche alcuni errori da non rifare) anche oggi.
Ritengo che male facemmo a non riprendere negli anni che seguirono una riflessione sul perché e il come, liquidando tutto e auto-assolvendoci con il referendum per l’estensione dell’articolo 18. Referendum che sapevamo tutti non avrebbe raggiunto il quorum e che vivemmo come una pratica liquidatoria di una stagione i cui interrogativi rimanevano aperti e con cui avremmo dovuto poi, presto, fare i conti (ma questa della “non riflessione” in Cgil dopo Pesaro è, come si dice, un’altra storia…).
Il primo insegnamento ancora valido è questo: una manifestazione sindacale, se parla di temi che uniscono le condizioni diverse, ampliano le alleanze sui posti di lavoro ed è il frutto di un lavoro costante, coerente, declinato in tutti i suoi aspetti, diventa di per sé una grande manifestazione politica, in grado di generare e rigenerare la partecipazione anche oltre gli iscritti e i funzionari del sindacato.
Il secondo: la Cgil e le sue parole d’ordine erano le parole d’ordine, l’armamentario simbolico e concreto al tempo stesso, di un popolo che sapeva (e sa) che – senza assumere fino in fondo il tema del lavoro, della sua qualità, della sua funzione emancipatrice – non ci si può dire di sinistra riducendo la politica alla mera arte della buona amministrazione. Una politica senza anima perché senza conflitto, senza radici nella società.
Il terzo: la Cgil era credibile non tanto perché era in difesa (appunto contro la manomissione dell’articolo 18 e della sua funzione di deterrenza), ma perché aveva saputo valorizzare anche una serie di proposte, dal mercato del lavoro alle politiche industriali (i famosi 2 sì e 2 no, la carta del lavoro ecc.), in una relazione dialettica, ma stretta, con le forze politiche e parlamentari che, non a caso, colsero fino in fondo che la Cgil aveva scelto di giocare alleanze e contraddizioni nel campo esplicito di quale sinistra per quale governo dei cambiamenti (celebre lo scontro tra D’Alema e Cofferati).
Insomma: eravamo tanto sindacato confederale in quanto portatori degli interessi dei lavoratori e pensionati nel campo esplicito della domanda politica e della rigenerazione dei suoi strumenti. Con la contraddizione di avere molto meno consenso nei dirigenti dei partiti di sinistra e dell’Ulivo, ma quasi un’egemonia nel suo popolo. Tanto è vero che molti giovani militanti dei partiti di sinistra, delle associazioni studentesche e finanche lavoratori con alte professionalità (che erano scesi in piazza magari per la prima volta) trovarono naturale continuare il proprio impegno “a sinistra” proprio nell’esperienza sindacale, come militanti, delegati e finanche dirigenti.
Con queste poche righe ovviamente non è mia intenzione riproporre analisi e dinamiche impossibili oggi, ere “geologiche” dopo (politiche, industriali, tecnologiche, geopolitiche), ma - nel ricordare un momento importante per la storia recente del sindacato e del Paese - riproporre però un tema che vedo ancora attuale: quale rapporto tra la rappresentanza sociale e quella politica? Quale rapporto per un sindacato confederale (per la sua specificità di soggetto di trasformazione e non di mera difesa corporativa) e la sinistra politica, il fronte democratico e progressista?
Temi importanti non solo (si fa per dire) per la tenuta democratica del Paese, ma anche per portare a casa “qualche risultato” per quelli che rappresentiamo, in un mondo dove probabilmente questa stessa discussione assume tratti che vanno anche ben oltre i destini nazionali delle singole forze sociali e politiche. E che pongono nell'agenda dell'oggi temi di portata storica come la transizione ecologica, la potenza di calcolo del digitale, la stessa transizione demografica. Temi su cui ritengo dobbiamo riprendere una “discussione collettiva” rispetto al noi e alla rappresentanza politica.
Ps: un saluto caro a chi, quel giorno di sole del 23 marzo 2002, era a Roma. L’augurio sincero, a chi per tante ragioni, finanche perché era troppo giovane o ancora non nato, di vivere una giornata come quella, orgogliosi di essere “Cgil”.