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“Sul Pnrr abbiamo consapevolezza della possibilità di infiltrazioni delle mafie, proprio per questo come amministrazione dell'Interno abbiamo cercato fin dall'inizio della pandemia di mettere in sicurezza alcune procedure". L’ultima volta che la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha lanciato l’allarme è stato qualche settimana fa a Napoli, in occasione della firma dell'Accordo per la promozione dell'attuazione di un sistema di sicurezza partecipata della città. Non era la prima volta. Da tempo, da quando sono state stanziate le prime risorse per fronteggiare l’emergenza coronavirus, sia la ministra che il Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho hanno ripetutamente messo in guardia sugli appetiti delle mafie. In diverse Regioni, tra gli atti di avvio del Pnrr ci sono protocolli di legalità siglati proprio per cercare di prevenire possibili infiltrazioni. Serviranno? In altre occasioni, pensiamo ad esempio all’Expo di Milano, sono stati utili.
Dei rischi che si corrono e del prontuario per evitarli parliamo con il professor Alberto Vannucci, ordinario di Scienze politiche all’università di Pisa e direttore del Master interuniversitario, organizzato insieme a Libera e agli atenei di Napoli, Torino e Palermo, su antimafia e anticorruzione.
L'allarme ripetuto sul rischio che la criminalità organizzata metta le mani sulle risorse del Pnrr, è reale?
Il rischio è reale, e ci sono alcune condizioni che, paradossalmente, favoriscono le mafie. Ovviamente la quantità di risorse, oltre 200 miliardi di investimenti pubblici è una cifra che non si era mai vista. Poi i tempi ridotti in cui devono essere spesi, il che porta e porterà ad adottare una serie di meccanismi di natura straordinaria, in qualche caso emergenziale, in qualche caso con il ricorso a strutture commissariali per certi tipi di intervento, che prevedono un alto tasso di discrezionalità del decisore pubblico. E, lo sappiamo, capita che le organizzazioni criminali siedano ai tavoli giusti.
Qual è il meccanismo di infiltrazione dell’economia malata in quella sana?
È un meccanismo a due facce. Da un lato imprese di proprietà o a partecipazione malavitosa concorrono all’assegnazione delle risorse, ad esempio attraverso appalti, subappalti o quant'altro. Ma questo, ritengo, è il volto meno preoccupante del meccanismo di inquinamento criminale. Assai più allarmante è la capacità delle diverse mafie - molto forte nel passato, e tutto lascia pensare che lo sia anche in futuro -, di giocare un ruolo nella funzione di regolatore. Insomma, è la loro capacità di svolgere una funzione che in qualche modo dà ordine e regolarità, prevedibilità alla ripartizione delle risorse tra i colletti bianchi che a vario titolo gestiscono, e in qualche caso si approprieranno indebitamente di queste risorse. È la cosiddetta zona grigia in grado di determinare l’allocazione delle ricorse attraverso il circuito della corruzione. E la presenza dell'attore mafioso dà ancora più stabilità e forza a questi circuiti, permettendo di gestire la distribuzione con minor rischio e ricavandone una quota maggiore, che ovviamente viene sottratta ai bilanci collettivi.
La riforma del Codice degli appalti appena licenziata dal Senato, modificando le norme varate solo da pochi anni e su indicazione dell’Europa, è utile a ridurre il rischio?
Vedo una criticità di fondo nella modalità con cui ormai, da troppi anni, la delicatissima materia degli appalti viene pensata e gestita: la bulimia normativa che porta a innovare, riformare, cambiare sempre all’insegna di una parola che è divenuta un alibi, semplificazione. In realtà, proprio grazie a questo sbandierato sforzo di semplificazione, di fatto la normativa diventa sempre più complessa e soprattutto cambia continuamente e questo complica, e di molto, il compito agli operatori del settore, che siano i funzionari pubblici, gli amministratori, imprenditori, professionisti che devono comprendere, interpretare e applicare quelle regole. Mi verrebbe da dire, la vera riforma rivoluzionaria del codice degli appalti sarebbe fare una moratoria: per 5-10 anni le norme non cambiano.
Non solo. Le norme cambiano in nome della semplificazione ma in realtà di tratta di deregolamentazione, di fuga dalle regole. La tendenza è quella di affidare a strutture interne alle amministrazioni esistenti, strutture create ad hoc, le famose strutture commissariali, il potere di operare secondo questa formula magica che dovrebbe risolvere tutti i problemi derogando a tutte le norme. Dallo sblocca cantieri ai vari decreti semplificazioni la linea è sempre stata quella, la deroga. Ora il Parlamento sta esaminando una legge delega di riforma degli appalti, non sappiamo ancora quale sarà il testo definivo del codice. Quello che sappiamo è che viene confermata la tendenza deregolatoria che, secondo l’Autorità anticorruzione, creerà un contesto che determinerà processi decisionali più vulnerabili al manifestarsi di fenomeni di illegalità, che siano infiltrazioni mafiose o fenomeni corruttivi.
Quali sono i danni all'economia legale che porta la partecipazione di imprese direttamente di proprietà dei mafiosi, o colluse con le varie mafie?
In quei territori dove è maggiore la capacità di infiltrazione dell’economia sana si registra una minor capacità di investire in innovazione, si opera in un contesto a grandissima intensità di lavoro e bassissima necessità di capitali. Gli imprenditori malavitosi investono poco perché hanno un orizzonte temporale più breve nel quale proiettare i frutti del proprio impegno, tendono a rastrellare il più possibile, hanno un approccio predatorio, parassitario. Il loro fare impresa non crea valore sociale, non distribuisce valore economico al territorio e alla collettività. E tutto questo determina un effetto di spiazzamento nella competizione con gli imprenditori sani. Si determina, insomma, una concorrenza distorta. E il terzo effetto è che queste condizioni economiche e sociali portano con sé una selezione dei peggiori. In un modello economico auspicabile la competizione, la concorrenza di mercato, dovrebbe tendere a premiare i soggetti che operano in modo più efficiente, che contribuiscono a creare più ricchezza sociale, producono a costi più bassi, offrendo prodotti migliori. Infine, anche il lavoro paga un prezzo altissimo. Questo tipo di imprenditori utilizza lavoratori in nero, vengono depressi diritti e salario, spesso non vengono nemmeno rispettate le condizioni minime per tutelare salute e sicurezza.
Che fare per evitare che gli oltre 200 miliardi finiscano nelle mani delle varie mafie del nostro Paese?
Non esiste una ricetta facile, miracolosa, altrimenti qualcuno l'avrebbe già presentata, avremmo già risolto il problema. Poi ogni territorio ha la sua specificità e quindi ogni intervento dovrebbe essere tarato a seconda di dove si applica. Quello che possiamo fare è prima di tutto fornire una chiave di lettura ampia di questi problemi, provare a trovare delle risposte che possono essere una sorta di massimo comun denominatore di quello che si potrebbe e si dovrebbe fare. Una delle prime cose è vigilare sulla natura degli interventi. Il settore dove le organizzazioni mafiose e la corruzione riescono a prosperare è quello della spesa pubblica. Dove risorse pubbliche vengono sprecate, per realizzare opere inutili o nell'acquisto di beni che non servono, là è l'Eden della corruzione e dell'inflazione mafiosa. Occorre, lo dicevamo, una moratoria sul Codice degli appalti e abbandonare la logica deregolatoria. È necessario, inoltre, immettere nelle pubbliche amministrazioni nuovo personale. Serve una campagna di reclutamento in grado di intercettare i migliori talenti e le migliori competenze in diversi ambiti non solo in materie giuridico formali. Infine, occorre rafforzare il circuito virtuoso tra comunità, amministratori e personale pubblico ricostruendo un tessuto etico comune e un riconoscimento reciproco.