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Il 22 gennaio del 1980 muore a Bologna Teresa Noce. Comunista, partigiana, madre costituente e storica segretaria dei e delle tessili, Estella avrà una storia tanto importante quanto dolorosa
Nata a Torino il 29 luglio del 1900 da una famiglia poverissima, Teresa Noce comincia a lavorare a sei anni consegnando il pane, poi come stiratrice, sarta, tornitrice alla Fiat.
Nel suo romanzo autobiografico, Gioventù senza sole, racconta la sua giovinezza torinese e la perdita del fratello maggiore: “Fu terribile - scriverà - Non mi rassegnai alla morte di mio fratello. Non potevo e non era giusto. Non avevo che lui. Il dolore, fin da allora, mi si trasformò in furore e in desiderio di lotta”.
Nel Pci dalla sua nascita (nel 1921), Teresa Noce espatria nel 1926 con il marito Luigi Longo prima a Mosca, poi in Francia.
A lei che si era autodefinita povera, brutta e comunista, Palmiro Togliatti darà il nome di battaglia di Estella. Quando il segretario glielo comunica, Teresa arrossisce ed allora Togliatti le dice ridendo “Va bene. Così nessuno risalirà a Voi”.
Nel 1936, dopo aver fondato a Parigi con Xenia Sereni il mensile Noi Donne è con Longo in Spagna, dove cura la pubblicazione de Il volontario della libertà, giornale degli italiani nelle Brigate internazionali.
Rientrata in Francia allo scoppio della Seconda guerra mondiale, è internata nel campo di Rieucros, lo stesso che ospita Anita Contini, Anna Maria Montagnana, Elettra Pollastrini.
Lo stesso campo ospita Baldina Di Vittorio, che ricorderà: “Rieucros fu per me un’esperienza importante perché lì conobbi decine di militanti di varie nazionalità. In particolare ricordo Teresa Noce (Estella), Giulietta (Lina) Fibbi, Elettra Pollastrini (Miriam), Anna Maria Montagnana (moglie di Mario), le sorelle Pauline e Mathilde, rispettivamente mogli di Andre Marty e di Gabriel Perì, a lungo prestigioso e amato direttore de ‘l’Humanite’, in quei mesi fucilato dai nazisti a Parigi. E tante compagne tedesche, cecoslovacche, spagnole, ecc. Per alcuni mesi fu internata con noi anche Anita Contini, la compagna di mio padre. Sulla mia sorte papà si rasserenò soltanto quando seppe che vicino a me c’era Estella, una compagna che avevo sempre conosciuto e che voleva bene a tutta la nostra famiglia. In effetti, Estella che pure era nota - oltre che per le sue qualità di combattente e di dirigente del movimento operaio - per il suo carattere difficile, fu molto buona e affettuosa soprattutto con le più giovani, e con me fu particolarmente materna”.
Quando, per intervento dei sovietici, Teresa è liberata e dovrebbe ricongiungersi ai figli a Mosca, per il cambiamento delle alleanze militari non può farlo. Resta così a Marsiglia, dove, per conto del Partito comunista francese, dirige il Moi (l’organizzazione degli operai immigrati) e si impegna nella lotta armata condotta contro i tedeschi e i collaborazionisti.
Durante una missione a Parigi all’inizio del 1943, è nuovamente arrestata: sarà deportata prima in Germania, nel campo di concentramento di Ravensbruck, poi a Holleischen, in Cecoslovacchia, dove sarà destinata al lavoro forzato in una fabbrica di munizioni fino alla liberazione del campo.
Qui Estella celebra l’8 marzo del 1945: “Per 1’8 marzo - racconta nel volume autobiografico Rivoluzionaria professionale - non potevamo organizzare una festa perché eravamo ormai troppo deboli e affamate, quindi decidemmo di tenere una conferenza (…) Vi erano operaie che conoscevano la lotta di classe, ma anche contadine e proprietarie di terre; vi erano impiegate, funzionarie dello Stato, ma vi erano anche capitaliste come la signora Michelin (fabbrica di pneumatici) e figlie di poliziotti. L’incarico di tenere la conferenza fu dato a me. Le compagne dissero che ero la più indicata, nonostante le precarie condizioni di salute, ed essendo stata esonerata dal lavoro, avrei avuto anche più possibilità di prepararmi. Dapprima le compagne chiedevano una conferenza solo per noi, cioè se non proprio per le comuniste, riservata almeno alle politiche. Mi opposi risolutamente; se volevamo fare una conferenza per 1’8 marzo, questa doveva interessare tutte le deportate, fossero o no politiche. (…) Non tutte le deportate conoscevano certi avvenimenti: e noi volevamo parlare loro di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, la Pulzella di Orleans; di Louise Michel, la comunarda e di madame Curie, la fisica franco-polacca; di Emmeline Pankhurst, la suffragetta inglese e di sua figlia Sylvia; della Pasionaria spagnola, di Nadeizda Krupskaja, la moglie di Lenin, di Rosa Luxemburg, tedesca. Era importante che tutte sapessero che in ogni secolo vi erano state donne che avevano lottato per difendere il proprio Paese o la propria religione, il pane e il lavoro per tutti, la pace, la libertà da ogni oppressione, contro la tirannia e lo sfruttamento. Perché dovevamo parlare, oltre che di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, anche delle serve della gleba insorte con la jacquerie del 1358 e delle calzettaie della Rivoluzione francese, delle comunarde di Parigi e delle setaiole di Lione, delle suffragette inglesi e delle martiri di Chicago, delle rivoluzionarie russe e delle insorte di Torino, delle scioperanti contro i padroni e contro i fascisti. Trovai più aiuto di quanto avessi sperato. Tutte volevano dirmi qualche cosa, del proprio Paese o di persone conosciute o di episodi di lotta o di quello che ricordavano delle lezioni di scuola: e con più apertura mentale e meno conformismo di quanto mi attendessi. La permanenza al campo, la lezione delle sofferenze sopportate in comune, forse non erano state inutili. Poteva anche essere che, appena libere, quelle donne tornassero a vivere come prima, ma era molto più probabile, in ognuna, qualche cambiamento”.
Tornata in Italia è nominata alla Consulta e nel 1946 è la prima degli eletti alla Costituente della sua circoscrizione, una delle più votate del Pci a livello nazionale. Eletta in Parlamento, vi rimane per due legislature, durante le quali presenterà nel 1948 la proposta di legge per la “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” – che prevedeva i permessi di lavoro retribuiti a partire dall’accertamento della gestazione in atto, il divieto di licenziamento delle donne incinte e dei lavori usuranti, e che costituì la base della legislazione sul lavoro femminile fino alle leggi degli anni Settanta sulla parità tra donne e uomini – e nel 1950, insieme con Maria Federici, la legge che prevedeva eguale salario per eguale lavoro per donne e uomini.
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“Teresa - scrive Graziella Flaconi - diventa capolista in due circoscrizioni Modena-Reggio e Parma-Piacenza, venendo eletta in entrambe. Campagna elettorale faticosa, sempre in macchina, sempre a parlare. Ma la votano persino le suore. Infatti in una sezione, dove queste avevano votato, il numero delle preferenze per lei avevano superato quelli degli iscritti 'civili' nelle liste elettorali”.
Intanto, stanca delle avventure amorose del marito – che già quando lei era stata rinchiusa nei lager tedeschi, aveva iniziato a convivere more uxorio con un’altra loro antica compagna di battaglie e che aveva poi iniziato un’altra relazione con l’ex partigiana Bruna Conti, da cui avrà anche un figlio – Teresa lascia la casa romana e si trasferisce a Milano, dove poteva occuparsi più da vicino della Fiot (Federazione italiana operai tessili) di cui era segretaria.
“Io avevo accettato questo incarico contando proprio sull’aiuto dei compagni che svolgevano quel lavoro da più lungo tempo - racconterà in seguito - Nessuno invece voleva aiutarmi e ognuno di loro si sentiva sicuro di essere più adatto di me a quella carica di segretario generale, per varie ragioni: io non conoscevo il lavoro sindacale attuale, ma solo quello di prima del fascismo o quello illegale; non conoscevo i problemi tecnici, settoriali; ero troppo «politica»; infine, ed era l’ostacolo principale, ero una donna. Il lavoro sindacale tessile non era mai stato diretto, neppure prima del fascismo, da una donna”.
Nel 1953 scopre da un trafiletto comparso sul Corriere della Sera che il suo matrimonio è stato annullato.
Teresa - dopo aver chiesto inutilmente che fosse il Partito a farlo - invia al giornale una smentita, salvo poi scoprire che era tutto vero e che addirittura il marito aveva falsificato la sua firma.
Inizia così, tristemente, la sua parabola discendente: i compagni con cui aveva condiviso anni di lotte avalleranno il comportamento di Longo e sarà lei, alla fine, ad essere messa sotto accusa e ad essere espulsa dal Partito. Alle elezioni del 1958 non sarà ricandidata e nel 1955 abbandonerà anche l’incarico alla Fiot, allontanandosi gradualmente dalla vita pubblica.
“Quando, attraverso un legale, ebbi preso visione della sentenza di annullamento -racconta - provai un tale rigurgito di disgusto e di amarezza da ammalarmi”
Provai - dirà - “il più grave trauma, politico e personale, della mia vita. Grave e doloroso più del carcere, più della deportazione”.