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A dieci anni dal referendum, l’acqua in Italia è ancora sotto attacco. Il 12 e 13 giugno del 2011, 26 milioni di italiani sancirono che su questa preziosa risorsa non si sarebbe potuto più fare profitto: niente più margini, finanza speculativa o business, semmai un servizio efficiente a fronte di investimenti sulla rete. E sul nucleare nella stessa occasione gli elettori si espressero per fermare i piani del governo, bocciando per la seconda volta la produzione di questa energia nel nostro Paese. “Ma a distanza di 10 anni c'è poco da festeggiare – sostengono Gianna Fracassi e Ivana Galli, vicesegretaria generale e segretaria confederale della Cgil -. All’esito referendario non ha fatto seguito l’approvazione di una legge per la ripubblicizzazione dell’acqua e le anticipazioni in materia di riforma di mercato e concorrenza contenute nel Pnrr potrebbero prefigurare un ulteriore allontanamento dalla volontà popolare. A livello globale, poi, a dicembre scorso per la prima volta l’acqua è entrata nelle quotazioni di borsa a Wall Street, aprendo alla possibilità di fare speculazione finanziaria su un diritto universale, che viene ridotto a merce”.
In Brasile, con le recenti leggi del 2020 del governo Bolsonaro, il grande capitale si sta appropriando delle riserve naturali di acqua e del settore igienico-sanitario del Paese. Le aziende vogliono il diritto di proprietà esclusiva di fiumi e bacini idrografici e in caso di siccità, la priorità dell’uso dell’acqua verrebbe data solo a coloro che la utilizzano con maggiore redditività. “L’accesso universale all’acqua per una popolazione globale in crescita è sempre più inesigibile – proseguono le sindacaliste -, a causa dei crescenti quantitativi richiesti dall’agricoltura intensiva e dall’industria, delle conseguenze del cambiamento climatico ma soprattutto di un uso non razionale e sostenibile della risorsa idrica”.
Tornando in Italia, la promessa referendaria “nessun profitto” non è stata rispettata, e secondo chi ha studiato i conti economici dei gestori del servizio, i piani d’Ambito, le tariffe applicate negli ultimi anni per l’acqua del rubinetto, sarebbe stata addirittura tradita. La Regione Piemonte ha messo a gara 67 grandi invasi per acquisire nuove entrate e sostenere la politica delle energie rinnovabili, 500 dighe e miliardi di litri di acqua da consegnare al miglior offerente. “Nel corso del tempo siamo arrivati a un passaggio importante: non solo l’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua, ma anche un vero e proprio processo di finanziarizzazione, con quotazione in borsa e meccanismi economici messi in campo dalle aziende – spiega Paolo Carsetti, rappresentante del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, che per il 12 e 13 giugno ha organizzato numerose iniziative diffuse sul territorio per riaffermare i temi e i valori della campagna referendaria e una manifestazione nazionale a Roma, sabato 12 alle 15.30 in piazza dell’Esquilino, a cui partecipa anche la Cgil, e un dibattito on line a carattere internazionale domenica 13 alle ore 18. “In pratica – dice Carsetti - si opera sul mercato borsistico del credito bancario, per cui si guarda a massimizzare gli utili per dividerli tra gli azionisti piuttosto che garantire efficienza agli utenti. Gli ultimi dati Istat ci dicono che le perdite delle reti sono aumentate: 42 per cento in media a livello nazionale, con punte del 74 per cento, ma non dove c’è una gestione pubblica, bensì dove opera una società totalmente privata, Acea Ato 5”.
Il modello quindi non è quasi mai cambiato, a parte rare eccezioni, come quella di Agrigento, dove l’assemblea dei sindaci dell’Ati, Autorità territoriale idrica, ha votato la trasformazione dell’azienda per un processo di ripubblicizzazione analogo a quello di Napoli, che è tuttora in itinere perché osteggiato. Nel frattempo, però, i costi per i cittadini sono aumentati. E mentre una legge di iniziativa popolare giace da anni alla Camera, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che contempla la questione idrica, dà l’indicazione di spostare il modello delle multiutility quotate in borsa anche al Sud, quindi di esportare la privatizzazione, reiterando la narrazione per cui la gestione nel Mezzogiorno è arretrata perché in mano al pubblico. L’esatto contrario di quanto ci si sarebbe aspettato dopo il 2011.
“Le cose non vanno meglio sul fronte del nucleare – affermano Gianna Fracassi e Ivana Galli -. In Europa è stata posticipata la definizione del regolamento per la tassonomia degli investimenti sostenibili, perché si è aperta una discussione a partire dalla richiesta di alcuni Paesi di considerare sostenibili anche il gas e il nucleare. In Italia, nonostante la pronuncia inequivocabile contro il nucleare espressa in due referendum, il tema sta riprendendo campo nella discussione, anche a seguito di diversi interventi da parte del ministro della Transizione ecologica. A 10 anni dal referendum, quindi, è necessario riaffermare con forza le rivendicazioni, i temi ed i valori che ci hanno visto protagonisti della campagna referendaria”.