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Il governo Tambroni è stato il quindicesimo esecutivo della Repubblica Italiana, il terzo della terza legislatura, il primo a essere sostenuto da una maggioranza di centro-destra durante la Prima Repubblica. Rimarrà in carica dal 25 marzo 1960 al mese di luglio dello stesso anno.
Nel marzo del 1960, dopo le consultazioni di rito, Fernando Tambroni presenta la lista dei ministri, nella quale - rileva da subito la stampa - sono rappresentate tutte le correnti interne della Dc, condizione imprescindibile per scongiurare l’insidia dei franchi tiratori. Nello stesso giorno Tambroni e i ministri giurano nelle mani del capo dello Stato. L’esecutivo è a maggioranza non precostituita e nelle intenzioni del suo presidente dovrebbe ottenere i voti in Parlamento attraverso un’opera di convincimento dei singoli partiti sul programma.
L’ex ministro dell’Interno avrebbe dovuto guidare un governo di transizione verso una maggioranza di centrosinistra, tuttavia nel discorso con il quale si presenta alle Camere per chiedere la fiducia il presidente del Consiglio incaricato presenta un indirizzo politico ispirato al binomio "legge ed ordine", ottenendo per la prima volta la fiducia grazie ai 24 voti del Movimento Sociale Italiano, determinando uno spostamento a destra degli equilibri politici e favorendo il tentativo del partito neofascista di uscire dall’isolamento in cui fin dalla sua nascita era stato relegato.
Per protesta contro l’appoggio determinante del Msi al governo si dimettono i ministri della Dc Fiorentino Sullo e Giorgio Bo, i sottosegretari Antonio Pecoraro, Lorenzo Spallino e Giulio Pastore. Annunciano la volontà di rimettere il loro incarico i ministri Benigno Zaccagnini, Emilio Colombo, Mariano Rumor, Mario Martinelli, Guido Gonella, Armando Angelini e Antonio Segni ed il Direttivo dei deputati della Dc si pronuncia per le immediate dimissioni del governo, richiesta cui si associano tutti i partiti. Nel pomeriggio del 12 aprile Tambroni si reca da Gronchi per presentare le dimissioni.
Fallito il tentativo di Fanfani di costituire un nuovo governo e non avendo altra alternativa che lo scioglimento delle camere in prossimità della sessione di bilancio, il presidente della Repubblica Gronchi rinvia Tambroni in Parlamento per chiedere la fiducia del Senato sulla base di un mandato a tempo limitato. Il 29 aprile la direzione nazionale della Dc assicura pieno sostegno a Fernando Tambroni al di là di ogni scelta politica. Due mesi più tardi, il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza.
In un rapporto prefettizio si legge: “Tale notizia ha provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono scioperi ed azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che bisogna riunire tutte le forze della resistenza per tale occasione”.
Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziano a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria fanno la voce grossa con il governo: quel congresso a Genova non si deve tenere, a qualunque costo. Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini, il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale.
Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere ‘no’ al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa. Io nego - e tutti voi legittimamente negate la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l'attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato. Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza. Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà. Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Un lungo corteo si dipana per le vie cittadine. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti ragazzi dalle magliette a strisce) si riversano per le strade del capoluogo. Alla testa della manifestazione gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. La manifestazione procede in maniera tranquilla, ma davanti al tentativo da parte della polizia di sciogliere il corteo e alla minaccia della calata in massa dei fascisti verso Genova esplode la rabbia popolare. I vecchi partigiani, le giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari, trovatisi per la prima volta fianco a fianco in unità d’intenti, non solo non soccombono alla polizia, ma impediscono il congresso missino, mandando in crisi il governo.
Il Pci chiede le dimissioni del governo. Trascorrono solo pochi giorni (è il 5 luglio) e a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, la polizia uccide Vincenzo Napoli.
Il 6 luglio a Roma viene negata l’autorizzazione a una manifestazione di protesta per i fatti appena accaduti a Genova e in Sicilia. La manifestazione però si tiene ugualmente: sfidando apertamente il divieto i romani scendono per le strade. Porta San Paolo si presenta accerchiata da celerini e carabinieri, per la prima volta vengono utilizzati i carabinieri a cavallo. In solidarietà con quanto successo a Genova, Roma e Licata, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia è indetto lo sciopero generale. La polizia spara nuovamente contro i dimostranti e cinque persone rimangono a terra uccise: Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19), Emilio Reverberi (39), Marino Serri (41) e Afro Tondelli (36). Tutti e cinque operai e comunisti, alcuni ex partigiani.
L’8 luglio, a Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia. Negli scontri con la polizia restano uccisi: Francesco Vella, 42 anni, sindacalista; Giuseppe Malleo, 16 anni; Andrea Gancitano, 18 anni; Rosa La Barbera, 53 anni, casalinga; 36 manifestanti sono feriti da proiettili; 400 i fermati, 71 gli arrestati. Sempre l’8 luglio, a Catania, rimane ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia Salvatore Novembre, giovane lavoratore edile di 20 anni.
Scriverà Luciano Romagnoli su Rinascita: “Che cosa era in discussione a Genova? E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la resistenza e la Costituzione repubblicana”.
Così nel mese di luglio, sempre su Rinascita, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.
“Abbiamo sconfitto i fascisti e Tambroni”, dirà esultante Rinaldo Scheda affermando: “Lo sciopero generale nazionale di protesta dichiarato dalla Cgil l’8 luglio in seguito all’uccisione da parte della polizia di cinque lavoratori di Reggio Emilia, ha determinato nel Paese un sussulto vigoroso, ha contribuito in modo decisivo a cacciare dalla direzione governativa la compagine clerico – fascista capeggiata dall’on. Tambroni. Le rabbiose reazioni dei circoli governativi e padronali contro questa grande manifestazione, le tragiche sparatorie della polizia a Palermo e a Catania nella giornata dell’8 luglio contro gli scioperanti, forniscono la prova drammatica della riuscita dello sciopero, delle larghe adesioni che esso ha avuto tra i lavoratori. L’ondata di manifestazioni antifasciste che hanno dominato la vita politica del paese nelle ultime due settimane in risposta alle provocazioni messe in atto dal governo Tambroni, ha avuto nella giornata dell’8 luglio il suo momento più avanzato. Lo sciopero generale ha consolidato l’unita di tutti gli antifascisti mobilitati per impedire una involuzione antidemocratica del paese e ha offerto uno sblocco legittimo alla spinta crescente delle masse lavoratrici verso un mutamento profondo della situazione politica, sociale ed economica dell’Italia”.
È la fine davvero. Con la piena approvazione delle convergenze democratiche tra Dc, Psdi, Pri e Pli, Tambroni riunisce il Consiglio dei ministri. Preso atto della formazione di una nuova maggioranza il presidente del Consiglio il 19 luglio si reca dal capo dello Stato per presentare le dimissioni.