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“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 - si legge nel comunicato con cui i nazisti annunciano l'avvenuta rappresaglia - elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito in via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi a incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito”.
A raccontare i fatti di quelle drammatiche 24 ore l'Enciclopedia dell'olocausto che spiega come: “Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia. Per questa ragione, gli ufficiali della polizia di sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici. Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri”.
“I tedeschi uccisi erano stati trentadue - ribadisce Carla Capponi, tra i partecipanti all’azione in via Rasella, nel suo libro Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista - uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all’eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell’errore si rese conto Priebke mentre svolgeva l’incarico di ‘spuntare’ le vittime prima dell’esecuzione, rilevandole da un elenco all’ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l’esecuzione e l’occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage”.
“Calcolai quanti minuti erano necessari per la fucilazione d’ognuna delle trecentoventi vittime - dirà Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma - Calcolai anche le armi e le munizioni necessarie. Cercai di rendermi conto di quanto tempo avessi a mia disposizione. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solamente un colpo, specificando che la pallottola doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea”.
“Le raffiche di mitra - scriveva padre Libero Raganella sul proprio diario - ora si sentono a breve distanza, ad intervalli, unite a grida disperate e strazianti. L’SS mi è ormai di fronte e in un italiano quasi perfetto (capisco subito che è uno dell’Alto Adige che ha optato per la grande Germania) mi fa notare che è proibito proseguire per quella strada o sostare, essendovi in corso un’azione di guerra. Mentre parla, più che ascoltare lui ascolto le mitragliatrici che a brevi intervalli scattano in canto rabbioso, e tra quel fragore infernale più distinte e chiare le urla, i lamenti ed ogni verso umano, ma reso disumano dal terrore. Come in sogno afferro la tragedia. ‘Là stanno morendo. Io sono sacerdote, vorrei assisterli, benedirli’, riesco a dire con un filo di voce. ‘Non è possibile, nessuno può passare. E se pure io la facessi passare – dice quello, voltandosi e accennando agli altri soldati – lei non tornerebbe indietro e noi faremmo la stessa fine di quelli là dentro. Vada via. Vada via subito prima che sia troppo tardi’”. Completato il massacro i tedeschi fanno saltare con delle mine l’ingresso della cava per sigillarlo.
“Italiani e italiane- tuonerà il Comitato di liberazione nazionale - un delitto senza nome è stato commesso nella vostra capitale. Sotto il pretesto di una rappresaglia per un atto di guerra di patrioti italiani, in cui esso aveva perso trentadue dei suoi SS, il nemico ha massacrato trecentoventi innocenti, strappandoli dal carcere dove languivano da mesi. Uomini di non altro colpevoli che di amare la patria – ma nessuno dei quali aveva parte alcuna né diretta né indiretta in quell’atto – sono stati uccisi il 24 marzo 1944 senza forma alcuna di processo, senza assistenza religiosa né conforto di familiari: non giustiziati ma assassinati”.
La visita alle Fosse Ardeatine sarà il primo atto ufficiale da presidente della Repubblica di Sergio Mattarella, che lo scorso anno affermava: “L’eccidio delle Ardeatine ha costituito una delle pagine più dolorose della storia recente del nostro Paese. I valori del rispetto della vita e della solidarietà che ci sorreggono in questo periodo, segnato da una grave emergenza sanitaria, rafforzano il dovere di rendere omaggio a quei morti innocenti. Eventi così atroci, frutto della volontà di sopraffazione e del razzismo, continuano a richiamarci ai valori fondamentali della memoria, della pace, della solidarietà. La libertà e la democrazia sono state conquistate con il sangue di molti per evitare che ne fosse sparso ancora in futuro. Al termine di quegli anni terribili, segnati dalla dittatura e dalla guerra, l’unità del popolo italiano consentì la rinascita morale, civile, economica, sociale della nostra Nazione. La stessa unità che ci è richiesta, oggi, in un momento difficile per l’intera comunità”.
Giulia Spizzichino, nata e cresciuta a Roma, sfuggita alla deportazione del 16 ottobre 1943 ad Auschwitz, alle Fosse Ardeatine perde 26 parenti.
Nel libro La farfalla impazzita ricorda:
Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c’era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l’attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c’era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte. Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l’entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro. Quando l’odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c’è che l’opera dell’amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso - i documenti erano stati loro sottratti - riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti. Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all’appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine! Ricordo che c’erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c’erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore…
"Quando l’odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c’è che l’opera dell’amore". Parole sulle quali riflettere.