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A un anno dall’inizio della pandemia, che ha visto in una prima fase la sospensione delle attività in presenza nelle scuole di tutto il Paese e, a settembre, una ripartenza “in presenza” a macchia di leopardo, con continui “stop and go”, è necessario un bilancio che consenta di ragionare in una prospettiva di riqualificazione del sistema scolastico, per ricostruire condizioni di vita, di socialità, di apprendimento fondamentali per la crescita delle bambine e dei bambini, delle studentesse e degli studenti.
È evidente che il “ritorno alla normalità” non può significare riavvolgere il nastro a ciò che era “prima”, magari attraverso un piano di recupero degli apprendimenti di una quindicina di giorni, collocato alla fine o all’inizio dell’anno scolastico, pensando che il problema possa risolversi nella restituzione di ore di lezione; si dovranno piuttosto prefigurare spazi e modi, adeguati alle diverse fasce di età e proiettati nell’arco di un intero percorso scolastico, per ri-significare l’esperienza vissuta e un contesto che si presenterà inevitabilmente modificato.
Il tempo della pandemia non è stato tempo sospeso e gli orologi della scuola non si sono fermati a un anno fa. Si è trattato di una scuola di emergenza, che ha determinato la necessità di organizzare e sperimentare nuove metodologie di insegnamento e inedite modalità pedagogiche; caratterizzata ora dal ricorso alle tecnologie, in situazioni in cui le distanze fisiche sono state in vario modo colmate dalla vicinanza virtuale, ora da attività in presenza in cui la gestione del distanziamento ha condizionato la relazione educativa e i rapporti tra i pari che, soprattutto per i più piccoli, si sostanziano nella corporeità, nel movimento, nel contatto anche fisico.
In tutti i casi, l’offerta formativa è stata garantita nel corso dei mesi, ma la perdita della socialità e delle routine, la nuova modalità di essere alunni e studenti, il pericolo percepito e l’incertezza che ha investito il presente e il futuro delle nuove generazioni ha prodotto ferite e lacune che occorre sanare. La letteratura scientifica evidenzia come i giovani siano una delle categorie che più hanno risentito degli effetti dannosi della pandemia, essendo venuta meno per molto tempo la dimensione del gruppo, della classe in cui si realizzano situazioni esperienziali che consentono di nutrire le tensioni cognitive, affettive e sociali.
Una situazione che, se ha rappresentato un danno per tutti, ha colpito più duramente i più poveri e i più vulnerabili, esasperando le disuguaglianze preesistenti. Una recente indagine condotta da Ipsos per Save The Children che analizza opinioni, stati d’animo e aspettative di studenti tra i 14 e i 18 anni ai tempi del coronavirus conferma il quadro critico.
Il 28% degli adolescenti dichiara che dall’inizio della pandemia almeno un compagno di classe ha smesso di frequentare la scuola, in molti casi si rilevano tassi di assenza maggiori rispetto agli anni precedenti. Le assenze prolungate rischiano di essere l’anticamera dell’abbandono scolastico per almeno 34mila studenti della secondaria di secondo grado.
Le ricadute del periodo a casa da scuola ha avuto, secondo gli adolescenti interpellati, ripercussioni negative su preparazione scolastica (43%) e capacità di studiare (37%), ma soprattutto su socialità (59%), emotività (57%), esperienze sentimentali (63%). Molti giovani ammettono anche di vivere stati d’animo come stanchezza, incertezza, preoccupazione, irritabilità e ansia; quasi uno su due ritiene che questo anno di pandemia sia stato un anno sprecato. Sono dati di fronte ai quali è necessaria una presa di coscienza collettiva.
Che cosa può e deve fare la scuola? Sono gli stessi studenti, secondo Ipsos, a individuare le priorità: innovazione didattica, tempo scuola, implementazione delle attività di laboratorio, confermando la necessità di interventi strutturali e qualificanti del sistema scuola e che riteniamo debbano riguardare tutti gli ordini e i gradi.
Non serve, quindi, riproporre il vecchio schema del debito da recuperare ma, a partire da una riflessione sull’autenticità di ciò che è scuola, occorre pensare nuovi modelli pedagogici e didattici, modalità organizzative flessibili e funzionali, spazi e materiali tali da consentire in tutte le fasi della vita scolastica esperienze di apprendimento e di crescita significative.
L’ estensione del tempo scuola deve diventare un punto di forza delle politiche scolastiche dei prossimi anni, assieme all’obbligatorietà da 3 a 18 anni e alla riduzione degli alunni per sezione e per classe. Sono necessarie scelte mirate a beneficio delle aree più deboli, quelle dove la dispersione scolastica tocca le cifre più allarmanti.
Sono i presupposti per ricostruire un contesto sociale e culturale sgretolato da anni di disinvestimenti nel settore dell’istruzione e aggravato dalla pandemia, per ritrovare condizioni nuove per stare e crescere insieme. Serve un piano straordinario di investimenti, finanziari e progettuali, per superare l’idea di scuola trasmissiva, recuperando il valore formativo ed emancipante della conoscenza che non è semplice adattamento all’esistente e alle sue regole, ma strumento di sviluppo umano e motore trasformativo della società per un cambiamento che la pandemia ha dimostrato essere urgente e ineludibile.
Manuela Calza è segretaria nazionale Flc Cgil