C'è un posto in Italia dove da oltre cent'anni si producono vaccini, che ospita eccellenze mondiali nella ricerca biotecnologica, e che accoglie uno stabilimento della multinazionale inglese Gsk in grado di sfornare 300.000 fialette al giorno. Ma in cui oggi non si produce nemmeno una goccia di siero anti-covid.
Siamo a Siena, a due passi dal centro storico, in un'altura che tutti chiamano la “collina delle scienze”. Qui, a inizio Novecento, Achille Sclavo investì i proventi del premio ricevuto per gli studi contro il carbonchio, fondando quello che sarebbe diventato l’Istituto sieroterapico e vaccinogeno toscano. A Sclavo, scienziato, imprenditore e studioso delle malattie infettive, oggi è intitolata una strada poco lontana. Perché è considerato il padre della storica scuola farmaceutica senese, e ha dato inizio a una tradizione che oggi si concretizza in un hub strategico di scienze della vita. Proprio su questa collina si sono avvicendati i laboratori idi ricerca delle multinazionali che, un decennio dopo l’altro, sono subentrate alla vecchia fabbrica.
Su un versante c'è infatti la Gsk Vaccines, il settore ricerca e sviluppo della multinazionale inglese. Sull'altro è nata invece Toscana Life Sciences, la fondazione pubblico-privata che promuove e incuba attività di ricerca, imprese innovative e integrazione di filiera in biotecnologica e medicina. Su entrambi i fianchi lavora il microbiologo Rino Rappuoli, docente all'Imperial college di Londra, chief scientist di Gsk, ma anche a capo di un gruppo di ricercatori che in Tls ha messo a punto l'anticorpo monoclonale italiano contro il covid che viene sviluppato alla Menarini di Pomezia.
Fuori dalla contesa
“Eppure noi qui siamo completamente tagliati fuori dalla partita contro il covid”, ci racconta Stefano Ricci, ricercatore e Rsu alla Gsk. Da 35 anni lavora nel reparto ricerca e sviluppo, e ha vissuto diversi cambi di proprietà che si sono susseguiti fino all'attuale. “Quando ho iniziato a lavorare, stavamo studiando e sviluppando i vaccini contro le meningiti che dopo 10 anni sono diventati prodotti sul mercato. Oggi stiamo lavorando a nuove formulazioni di quegli stessi vaccini. Insomma, siamo a dir poco deboli. Perché secondo me manca una visione di futuro”. La piattaforma mRNA, su cui viaggiano i vaccini anticovid più diffusi oggi, ad esempio, era stata sviluppata qui già diversi anni fa. “Ma è stata abbandonata, perché l'azienda non ha avuto l'occhio scientifico per capirne le potenzialità. Purtroppo, gli interessi che perseguono le multinazionali vanno oltre la mia personale capacità di comprensione. Anche se, la Gsk avrebbe oggi comunque la possibilità di contribuire alla lotta contro il covid, soprattutto nelle fasi finali della filiera”.
Se sulla collina delle scienze c'è la testa, in effetti, il braccio armato della Gsk è a Rosia, un quarto d'ora d'auto verso sud. Qui, tra i morbidi colli della campagna senese sorge l'enorme colosso bianco in cui si producono, s'infialano e si spediscono i vaccini. “Facciamo la fase primaria e quella secondaria di produzione. Ci sono i magazzini, e facciamo anche le spedizioni - ci racconta Duccio Romagnoli, coordinatore Rsu Gsk Filctem -. Qui dentro, su tre linee produttive, lavorano 2050 persone e 330 somministrati. E' da tempo che chiediamo all'azienda di partecipare alla produzione dei vaccini anticovid, perché conosciamo benissimo le potenzialità del nostro impianto. Se tutte e le linee fossero messe in movimento, infatti, potremmo dare una grande mano. Nell'ordine di 300.000 flaconi prodotti al giorno”. Le scelte della multinazionale, però, ancora una volta, vanno in tutt'altra direzione: “Giusto ieri ci hanno comunicato che una parte della lavorazione dei vaccini contro il coronavirus verrà sviluppata in Belgio, non qui”. Perché? “Questo bisognerebbe chiedere a loro. Parlano di difformità nelle linee produttive. Ma secondo me, potrebbero essere adattate nel giro di qualche mese”.
Diversi analisti ipotizzano che alcune grandi multinazionali, tra le quali c'è la Gsk, siano rimaste fuori dalla partita a causa del timore dei loro dirigenti di distrarre l’attenzione da farmaci e attività che contribuiscono a quote maggiori di fatturato e con minori rischi . Sanofi e Gsk, in realtà, hanno collaborato alla produzione di un siero “classico”, ma hanno accumulato ben 6 mesi di ritardo. Ora cercano di recuperare puntando sulla piattaforma mRNA. Gsk ha infatti annunciato una collaborazione per la produzione del vaccino di CureVac, azienda tedesca di biotecnologie. Ma gli impianti utilizzati non saranno quelli italiani.
Eccellenze e criticità
“Viste però le difficoltà enormi nella produzione e nella distribuzione dei vaccini a cui stiamo assistendo a livello globale – ci dice poco dopo il segretario della Filctem Siena Marco Goracci in Piazza del Campo - il nostro territorio potrebbe svolgere un ruolo decisivo, e contribuire fattivamente alla battaglia contro la pandemia. Facendo un rapido conto, con una sola linea di Rosia potremmo sfornare 15 milioni di vaccini al mese”. Un numero impressionante, che però viene ignorato dalle scelte della Gsk. La multinazionale, per ora, ha deciso di non cooperare con altre case farmaceutiche alla produzione. Almeno non qui. “Questo è un settore in cui la concorrenza la fa da padrona - spiega Goracci -. Noi abbiamo anche lanciato un appello molto preciso, affinché le Big pharma collaborassero fra di loro, così che, ognuno per le proprie competenze, potesse dare il proprio contributo ad affrontare la difficile situazione che stiamo vivendo”.
In pieno centro, in contrada Bruco, proprio al fianco dell'antica chiesa di San Francesco, c'è la facoltà di economia dell'Università di Siena. Qui ci accoglie Ugo Pagano, economista e docente di Politica economica. “La carenza di vaccini attuale, oltre che dalla complessità di produzione, dipende anche dal sistema economico in cui vengono prodotti – ci spiega -. I brevetti e la segretezza nell'elaborazione del farmaco rappresentano di certo una difficoltà. Chi ha fatto la sperimentazione per primo ha finora bloccato gli altri, e oggi gode di una situazione di sostanziale monopolio in Europa e negli Stati Uniti”. Eppure una soluzione ci sarebbe. Anzi due, secondo il professor Pagano: “Innanzitutto una strada è prevista proprio dall'Organizzazione mondiale del commercio. Alcuni accordi infatti prevedono che in situazioni di emergenza sia possibile sospendere i brevetti. Ma, in realtà, potrebbe intervenire persino l'antitrust italiano. Perché in una situazione di fortissimo eccesso di domanda, se il detentore del brevetto non riesce a soddisfarla, si profila un abuso di posizione dominante”. In ogni caso, “serve un intervento pubblico, perché siamo in una crisi che incide sulla sicurezza nazionale, se vogliamo usare questo termine”.
Tra le priorità del governo Draghi, in effetti, ci sarebbe un’intensificazione dei contatti con Bruxelles per spingere sull’acceleratore dei vaccini, esplorando concretamente la possibilità di produrli in Italia. Secondo quanto ha riportato Repubblica qualche giorno fa, Mario Draghi affronterà con la presidente Ursula von der Leyen questi temi.
Un distretto della vita
Anche per questo la Cgil e la Filctem locali continuano a fare pressioni affinché lo stabilimento di Rosia venga messo a disposizione nella battaglia contro il covid. Ma il contributo senese non si fermerebbe necessariamente all'ultimo miglio della produzione. In realtà, qui ci sarebbero le risorse per “coprire” anche il resto della filiera dei vaccini. Tornando verso la collina della scienze, ci imbattiamo nell'edificio di mattoni e vetro che ospita il Toscana life science. Nei corridoi c'è una sfilza interminabile di laboratori, con tanto di ricercatori coperti da maschere e tute protettive, microscopi, fialette, e tutto l'armamentario da film di fantascienza che nell0ultimo anno abbiamo imparato a riconoscere. Qui ci accoglie Emanuele Montomoli, docente medicina molecolare e dello sviluppo all'UniSiena e amministratore delegato di VisMederi, una delle aziende incubate da Tls. “Oggi - racconta Montomoli - stiamo lavorando per la certificazione di alcuni vaccini, tra cui ovviamente quelli contro il covid. Ma contemporaneamente portiamo avanti tutto il lavoro che facevamo prima sugli antinfluenzali, sulla difterite, sul tetano, sulla pertosse, sulla febbre gialla, ecc..”.
In uno di questi laboratori stanno già studiando la variante inglese del covid, “mentre quella brasiliana e quella sudafricana non le abbiamo ancora a disposizione”. VisMederi è uno degli anelli della lunga catena che porta dalla sperimentazione in vitro alla consegna del vaccino. “Sarebbe bello avere una filiera corta, che permettesse all'azienda che produce il farmaco di svolgere anche gli studi clinici per l'immissione in commercio - continua Montomoli -. Accorcerebbe di molto i tempi e, in questo periodo, un mese in più o in meno vuol dire salvare o perdere diverse vite. Purtroppo la burocrazia condiziona molto il nostro settore. Nei paesi occidentali è praticamente impossibile avere quelle che vengono chiamate Valley, dove si riesce a fare tutto. Noi abbiamo obbligatoriamente bisogno di una Big pharma che produce il farmaco, e poi una serie di aziende che lavorano su commessa per certificare e qualificare il prodotto”. Alla fine Montomoli ci lascia perché ha una riunione con i dirigenti di AstraZeneca. Forse contribuirà anche allo sviluppo del loro vaccino. Ma anche quello non verrà prodotto da queste parti.
Le Big pharma decidono infatti in totale libertà come, dove e quando confezionare. Anche se, in luoghi come Siena, un sorta di filiera corta, in grado accelerare i tempi nella consegna ci sarebbe già. “Oggi è evidente più che mai. Per questo vogliamo creare su questo territorio un vero e proprio distretto industriale delle scienze della vita - conclude Fabio Seggiani, segretario generale della Cgil locale -. Anche semplicemente per uscire dalla logica di Gsk come unico punto di riferimento. Abbiamo delle eccellenze a livello mondiale in biotecnologia e in farmaceutica, abbiamo una tradizione e l'università, abbiamo anche realtà industriali importanti. Questi soggetti vanno però gestiti in un perimetro condiviso che permetterebbe anche di avere buona occupazione, e di generare ricadute e positive anche in altri comparti”. Serve quindi una rete fatta di istituzioni, sindacati e aziende che sia in grado di lavorare insieme. “Noi qui siamo già a buon punto. Quello che ci manca ancora sono le volontà politiche”. Come troppo spesso accade, insomma, manca ancora una visione.