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In una Sapienza occupata già da più di due settimane e in un clima segnato da grandi mobilitazioni studentesche, il 17 febbraio 1977 Luciano Lama viene contestato all’Università di Roma. Alle 10 in punto inizia il suo comizio.
Le parole di Luciano Lama
“Compagne e compagni - dirà - lavoratori e studenti, io credo che il modo migliore per utilizzare questa occasione sia quello di ragionare e ascoltare con calma. Questa grande manifestazione di lavoratori e studenti può forse essere un poco disturbata, non può essere impedita. Io voglio dire che questa mattina ero venuto qui francamente curioso di vedere quello a cui un giornale, il solito Corriere della Sera, ci aveva preparato, parlando di carri armati che sarebbero entrati all’Università di Roma; francamente carri armati non ne ho veduti”.
Al posto di carri armati e autoblindo, il leader di corso d’Italia vede “migliaia di lavoratori, di lavoratrici, di studenti riuniti qui per discutere di un problema vitale, non solo della gioventù italiana, ma dell’intera società del nostro Paese, ed è di questo che dobbiamo parlare qui oggi, perché questi sono i problemi reali che assillano insieme i giovani e gli adulti in Italia. Quale domani prepara questa scuola a voi compagni studenti e ai lavoratori? È questa la domanda che noi ci dobbiamo porre, e a questa domanda deve rispondere non solo questa nostra manifestazione, ma l’impegno del mondo studentesco e culturale e l’impegno di lotta delle grandi masse dei lavoratori italiani (…) Noi non pensiamo di poter agire senza di voi e tanto meno pensiamo di poter agire contro di voi”.
Parla per una ventina di minuti. Forse il discorso è finito, forse no, ma continuare non è più possibile: vola di tutto sul palco assediato e bisogna abbandonare il campo in fretta.
La durissima contestazione
Alle 10 e 30 Bruno Vettraino dichiara sciolta la manifestazione.
“Sono stato l’ultimo a scendere prima che il palco venisse distrutto - racconterà - Era un vecchio scassone. Dal Dopoguerra in poi, però, non c’era stata manifestazione importante, da Porta San Paolo a San Giovanni, in cui il Dodge rosso non fosse in testa al corteo. Difficile spiegare a chi non è stato militante del Pci in quegli anni. Ma, alla fine degli scontri, più che le teste rotte, quello che sembrava bruciare di più era proprio la perdita di quella bandiera”.
“Basta, basta, non ci si picchia fra compagni”, afferma qualcuno piangendo. Ma in pochi minuti e viene giù tutto e insieme ai sassi e alla violenza si spezza il legame che, neppure dieci anni prima, aveva fatto del '68 e dell'Autunno caldo un biennio di conquiste sociali.
Racconterà anni dopo Alberto Asor Rosa, recentemente scomparso:
All’inizio della mattinata il clima era relativamente tranquillo. Per sostenere il leader sindacale la Cgil aveva reclutato un centinaio di operai soprattutto nelle fabbriche della Tiburtina. Cominciarono ad affluire in piccoli gruppi, alcuni si misero a lavorare al palco di Lama, un piccolo camion sistemato tra la fontana della Minerva e la facoltà di Legge. Mentre loro sistemavano il palco, io vedevo crescere una moltitudine di studenti vocianti. Al principio mi sembrava prevalesse un’intenzione canzonatoria, tra gli slogan degli Uccelli e i canti degli indiani metropolitani sulla melodia di Guantanamera. Ma poi il rumore di fondo si trasformò in boato (…) Per me fu un trauma. Assistetti a una scena inimmaginabile: il più grande leader sindacale e una rappresentanza della classe operaia presi a sassate da studenti ed emarginati. Compresi all’istante che le mie categorie interpretative - classicamente marxiste - erano vecchie, inservibili. E la sera stessa scrissi di getto Le due società (…) Da una parte c'erano i ‘garantiti’, operai, consigli di fabbrica, insegnanti, lavoratori del terziario, insomma la prima società. Dall’altra gli studenti, il precariato intellettuale, l’area degli emarginati, la seconda società dei ‘non garantiti’ che il Pci non era stato in grado di intercettare e rappresentare.
“All’epoca io ero all’Università - dirà anni dopo la figlia di Luciano Lama Rossella - provai a spiegargli che potevano esserci disordini, lui però era deciso. Non poteva accettare che ci fosse una zona off limits in cui il sindacato non poteva entrare e che gli studenti contrari a quel clima la dovessero subire. La considerava una missione”.
“Ci sarei andato lo stesso - ribadirà Lama al giornalista della tv svizzera Gianni Delli Ponti che gli chiedeva se, sapendo che cosa bolliva in pentola, La Sapienza l’avrebbe evitata - era necessario far scoppiare il bubbone, bisognava che si capisse dove stava il pericolo e di che cosa si trattava”.
Bisognava capire.