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Credo sia possibile strutturare il dibattito relativo alla necessità di un nuovo contratto sociale per il rilancio della sinistra europea attorno a tre punti cardinali, tre questioni principali e di importanza direi quasi esistenziale. Le elenco qui, e mi propongo di svilupparle nel resto del mio intervento.
In primis, c’è in effetti bisogno di un contratto sociale, ed è importante che sia un contratto nuovo. Cosa c’è che non va con l’attuale contratto, ormai affermatosi nella prassi (e a volte anche nel diritto e nelle nostre costituzioni nazionali ed europee) da una trentina d’anni in tutta Europa? Due cose, in particolare.
Prima di tutto è un contratto a due, lavoratori da un lato e imprese sempre più potenti dall’altro, mentre il grande assente, progressivamente ma visibilmente eclissatosi nel tempo, è lo Stato, il Pubblico, le istituzioni. È chiaro che così non va. Secondo, questo contratto a due è insostenibile. Questo contratto (non molto sociale), anziché ripartire in maniera equanime i rischi sottesi ai nostri assetti produttivi, sociali, del mercato del lavoro, tende a sbilanciarli in maniera spropositata verso i lavoratori, e paradossalmente verso lo Stato assente. Un caso perfetto di abuso di potere e di esternalizzazione negativa di cui non si parla ancora abbastanza e che è insostenibile, perché di fatto privatizza profitti e socializza perdite: perdite sociali, perdite ambientali, perdite democratiche.
In secondo luogo, questo nuovo contratto sociale trilaterale (con lo Stato e le istituzioni, europee e nazionali) deve essere impostato sulla base delle tre sfide che stanno ormai emergendo come chiare priorità esistenziali (specie in Europa, e in maniera più confusa a livello nazionale e internazionale) ma che non trovano ancora una piena risposta politica: il cambiamento climatico; le disuguaglianze; la manifesta incapacità del sistema economico di generare benessere in maniera sostenuta e sostenibile.
In terzo luogo, questo contratto deve trovare una risposta politica riunendo le tradizionali anime della famiglia progressista europea: l’anima ecologista, quella della sinistra radicale, e quella socialdemocratica e più riformista.
Ci tengo ad anticipare che per il successo di ognuno di questi tre tasselli, la presenza di una rappresentanza organizzata del mondo del lavoro è essenziale.
Un nuovo ruolo per lo Stato
Sono trent’anni che lo Stato ha progressivamente abdicato al suo ruolo essenziale come parte contraente nel contratto sociale tra lavoro e capitale. Lo Stato si è ritirato sia nel suo ruolo di finanziatore dei diritti sottesi al contratto stesso (basti pensare alla pressione sulla spesa pubblica e deficit a seguito dell’adozione dei famosi ‘criteri di Maastricht’, per non parlare della costituzionalizzazione del monetarismo in molte Carte nazionali e nelle stessa Costituzione europea durante gli anni dell’austerity), sia nel suo ruolo di regolatore degli interessi (e dei diritti) delle parti in gioco (e quando non ha ignorato questi diritti, di solito li ha indeboliti a favore dell’impresa), sia nel suo ruolo di redistributore del potere (e delle risorse, politiche ed economiche) progressivamente accumulato dalla parte più forte nel contratto, l’impresa. Complice, quando non assente.
A seguito della pandemia, nel marzo del 2020, lo Stato (il pubblico, i governi nazionali, l’Europa) ha dovuto gioco forza recuperare alcune delle sue funzioni. La manifestazione più visibile di questo recupero di funzioni è, probabilmente, rinvenibile nel nuovo approccio dell’Unione Europea. Sospensione del Patto di stabilità; sospensione di alcune regole relative agli aiuti di Stato e alla concorrenza; la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e di strumenti a sostegno del reddito e dell’occupazione (collegati al meccanismo Sure), un investimento e una spesa finanziaria senza precedenti nei vari pacchetti che compongono Next generation Eu (e tramite una serie di altri fondi). Non proprio un ritorno a Keynes, ma di certo la sospensione della fase più violenta del neo-monetarismo in salsa europea.
In verità un cambio di passo c’era già stato prima della pandemia, con una presa di coscienza che decenni di deregolamentazione e ristrutturazioni lasciate, sostanzialmente alle forze di mercato (mercato unico e mercato globale), avevano generato un malcontento corrosivo, di cui per molti versi il populismo, l’estremismo di destra, e la Brexit sono la conseguenza. Il prodotto di questa presa di coscienza è il timido, ma per molti versi innovativo, Pilastro sociale europeo, che si è fatto portatore di alcune delle istanze spinte da anni dal movimento sindacale europeo, ma che – tutti ci rendiamo conto – ne fa giustizia in maniera molto limitata e parziale (ma va dato credito all’Europa per, almeno, provare a regolamentare fenomeni come il lavoro di piattaforma – nessuno dei nostri governi nazionali ci ha nemmeno provato).
In futuro lo Stato sarà chiamato a intervenire ulteriormente per dirimere e risolvere una serie di questioni, come la attuale crisi energetica e il carovita, la sfida ambientale e i fortissimi investimenti e le azioni di sostegno che essa richiede. È effimero pensare che queste grandi sfide possano essere Iasciate ai mercati, alla mano invisibile, o alla ‘finanza verde’. I progetti neoliberali di un decennio fa – un ritorno allo Stato esiguo – vanno definitivamente chiusi nel dimenticatoio politico. Qui lo Stato deve fare di più. Deve sostenere la parte contrattuale più debole in quanto esposta a sbilanciamenti decennali. Non solo deve rispettare le libertà sindacali, i diritti del lavoro e sociali, ma ha l’obbligo (come succede in alcuni sistemi europei a maggiore coesione) di sostenere il ruolo del sindacato in maniera attiva, di innovare i diritti, di creare reti di sostegno inspirate all’universalità e alla dignità del lavoro e della persona.
Lì dove lo Stato è ancora del tutto assente (specie a livello europeo) è nel suo ruolo di redistributore delle ricchezze tramite la leva fiscale. Si accolla tutta una serie di spese e responsabilità non sue (si pensi al sostegno al sistema del lavoro di piattaforma dove aziende che millantano di impiegare lavoratori autonomi non contribuiscono a fisco, sicurezza sociale, salari dignitosi lasciando che sia lo Stato a occuparsi di tutti questi oneri sociali – un sussidio indiretto a un modello aziendale tra i meno lungimiranti in termini di sostenibilità), ma non è chiaro come pensi di finanziare queste funzioni. Di certo non tassando le aziende che beneficiano di lavori sottopagati visto che, è notizia di qualche giorno fa, Amazon Europe (con sede fiscale in Lussemburgo) ha pagato zero tasse su un fatturato di 51 miliardi di vendite in Europa. Lo Stato deve sì sostenere la crescita e l’innovazione, ma deve puntare a modelli imprenditoriali ed economici sostenibili nel lungo periodo e che contribuiscano, nel lungo periodo, al sostegno ricevuto.
I temi essenziali del nuovo contratto sociale
Siamo talmente costantemente esposti a un susseguirsi di crisi che diventa quasi impossibile stabilire quali debbano essere le priorità politiche e sociali e, direi quasi, esistenziali, della specie umana. Ma mi sembra che, contingenze a parte, tre temi emergono con una certa preponderanza. Il primo è quello del cambiamento climatico. Il secondo è quello delle disuguaglianze. Il terzo è quello del modello economico e di crescita. I tre temi sono, ovviamente, correlati.
Sul cambiamento climatico l’Europa porta avanti una proposta alquanto strutturata e non priva di ambizioni. Gli obiettivi della strategia europea, del Green deal, sono sostanzialmente tre: raggiungere una neutralità climatica dal punto di vista delle emissioni entro il 2050; una tappa intermedia nel 2030 quando le emissioni dovrebbero essere pari o inferiori al 55 per cento di quelle prodotte nel 1990; il tutto nella speranza che le temperature medie alla fine di questo secolo non saranno superiori di 1,5 gradi rispetto all’inizio.
Per assistere il raggiungimento di questi obbiettivi, il Green deal si propone di sviluppare una serie di strategie più specifiche, tra cui la Carbon neutral agenda; la Biodiversity strategy 2030; il New circular economy action plan; la Zero pollution strategy; la Farm to fork strategy; Just transition; un Sustainable european investment plan; e una strategia su Future ready economy – new industrial strategy.
Ciascuna di queste strategie è di grande interesse per il mondo del lavoro giacchè paventa cambiamenti alle volte anche strutturali sui sistemi di produzione e consumo con forti ripercussioni su modi e livelli di impiego del lavoro umano. Di tutte, la più rilevante e foriera di speranze è forse quella che va sotto il nome di ‘Transizioni giuste/Just transitions’. In vari documenti la Commissione definisce questa strategia come “la transizione verso un’economia sostenibile che non lasci nessuno indietro” (“the transition to a sustainable economy should leave no one and no place behind”).
Le priorità principali sono: educazione, formazione e formazione continua, condizioni di lavoro, salute, inclusione sociale e diritti delle minoranze, uguaglianza di genere e sviluppo rurale. Si impernia su quattro pilastri istituzionali: il Just transition fund (dotato di una dozzina di miliardi di euro), un European climate pact to bring all players together, il più noto European pillar of social rights, e la European gender strategy mirante a rafforzare le pari opportunità.
Come ben sapete, siamo in una fase di ‘Climate mainstreaming’ dove altre politiche Ue che non hanno una vocazione espressamente ambientale devono contribuire comunque a questi obiettivi (incluse le azioni finanziate tramite Next generation Eu).
Ci tengo a sottolineare che gli esperti sono divisi circa alla capacità del Green deal di raggiungere l’obiettivo principale della neutralità entro il 2050, benché una maggioranza lo ritenga un obiettivo possibile, necessario e sufficiente a contenere l’aumento costante delle temperature. La tappa intermedia del 2030 sarà cruciale.
Il tema delle disuguaglianze, come è evidente già da questa analisi, non è del tutto estraneo al tema delle transizioni giuste. L’Unione europea riconosce che le transizioni potrebbero inasprire tutta una serie di disuguaglianze, di genere, territoriali, in parte anche sociali, e fornisce alcuni mezzi (in verità un po’ esigui) e linee guida agli Stati membri per ridurre l’impatto della transizione. Ma mi sembra che questo approccio sottovaluti il problema.
Prima di tutto manca un’analisi chiara precisa dell’impatto della transizione su la qualità e la quantità del lavoro in settori, regioni, e gruppi demografici specifici. In mancanza di questa analisi è davvero difficile stabilire se i mezzi preposti a tali fini sono effettivamente idonei a contenere un aumento delle disuguaglianze. Ma, cosa più importante, manca una coscienza del fatto che questi cambiamenti avvengono in un’Europa con divari sociali senza precedenti, fortemente aggravati (e moltiplicati) dalla pandemia. Né l’Europa né gli Stati membri hanno una strategia chiara mirante a ridurre questi divari preesistenti. E questa deve senz’altro essere una priorità per il nuovo contratto sociale.
La terza priorità del contratto sociale è quella della crescita e sostenibilità del modello economico. C’è qualcosa che non va nel nostro modello economico. Sono ormai vent’anni che passiamo di crisi in crisi. Finanziarie, economiche, sanitarie, e adesso una guerra dagli effetti geopolitici, economici e sociali fortemente incerti. Abbiamo l’impressione che il sistema economico costruito negli ultimi trent’anni stia perdendo colpi. Che giri sempre più a vuoto. L’Unione europea punta molto su un coordinamento rinnovato delle proprie politiche industriali, su concetti di Autonomia strategica (con un rinnovato controllo delle risorse e industrie essenziali alla transizione ecologica e tecnologica), e sulla transizione verde e digitale. Parla di crescita sostenuta, accarezza l’idea di “campioni europei” nel settore tecnologico e dei servizi avanzati, del potenziale del mercato unico come vettore per esportare nel mondo, tramite accordi commerciali in cui gli standard europei (potenzialmente anche quelli sociali) siano esportati come condizione per un libero scambio. Idee potenzialmente innovative e interessanti ma che mancano di una visione strategica chiara.
Ma mi sembra chiaro che in tutte queste interessanti prospettive manchi, in particolare, una prospettiva rispetto al ruolo del lavoro e, in particolare rispetto al ruolo del sindacato. Credo che l’Europa, e parte del mondo politico, accarezzi un’idea di sindacato come una, per certi versi rispettata, lobby quasi istituzionale, con la quali consultarsi e confrontarsi su varie tematiche anche oltre il mandato del dialogo sociale europeo. Uno stakeholder. Per molti versi è un ruolo che il sindacato riveste con una certa efficacia e che ha portato nell’ultimo quinquennio, una serie di risultati, politici e legislativi, sostanzialmente positivi.
Per altri versi però è chiaro che questa visione di sindacato non è compatibile con la complessità delle tre sfide indicate in precedenza. La capillarità dell’impatto della trasformazione ecologica richiederà una presenza altrettanto capillare delle strutture di rappresentanza, per evitare uno sbilanciamento del contratto sociale ed esiti negativi sul versante sociale. Né è possibile immaginare che la legittimazione democratica dei cambiamenti paventati possa essere il frutto di strumenti di interpellanza diretta della cittadinanza, tramite forum, consulte pubbliche. Francamente è difficile immaginare una transizione giusta (e probabilmente anche una transizione ingiusta) senza un ribilanciamento del contratto sociale con un ruolo più importante per le organizzazioni rappresentative del lavoro.
Il tema delle disuguaglianze ci ricorda che uno dei due meccanismi redistributivi più efficaci è per l’appunto la legislazione dei diritti dei lavoratori: i meccanismi di contrattazione collettiva, e la rappresentanza nelle istituzioni di democrazia industriale. Quella parte del ricavo aziendale che non viene redistribuita in salari e diritti, finisce in profitti e ulteriori disuguaglianze, a maggior ragione se non tassata. E questi squilibri sociali prima o poi generano squilibri politici. È utile ricordarci delle linee di apertura della Costituzione dell’Oil – “universal and lasting peace can be established only if it is based upon social justice”. Senza diritti del lavoro, senza sindacato, senza giustizia sociale non ci può essere una sostenibilità a lungo termine di nessun modello economico. E considerando che molte delle scelte future non saranno socialmente anodine, è importante includere in questa equazione anche uno spazio per la mobilitazione e il conflitto industriale.
Contratto sociale e politica
La politica progressista è stata dichiarata morta, o almeno moribonda, più di una volta. Anche di recente. È giusto dire che quelle notizie sono sempre state grossolanamente esagerate. Queste chiamate allarmistiche sono tipicamente basate su tre ampie generalizzazioni, che suonano tutte superficialmente convincenti. Le elenco liberamente.
Le tre fratture irrisolte nella politica progressista europea. In primo luogo, i tre principali pilastri ideologici della politica progressista - la socialdemocrazia, il movimento ecologista e la sinistra radicale - sarebbero ora completamente disallineati e incapaci di parlare tra loro, per non parlare di raggiungere un compromesso. L'ideologia della “terza via” ha corrotto il primo pilastro socialdemocratico, la sinistra è bloccata su “vecchie ricette”, e i verdi non sono credibili su una transizione ecologica non distruttiva dell'economia. Prendiamo il panorama politico francese: le tre componenti principali della politica progressista erano approssimativamente intorno al 10 per cento ciascuna ad un anno dalle elezioni presidenziali. Incapaci di parlarsi per formare una coalizione - e nonostante una notevole oscillazione verso la France Insoumise di Melenchon negli ultimi tre mesi della campagna - hanno finito per rimanere fuori dalla competizione presidenziale. È chiaro che una sorta di alleanza tra i progressisti avrebbe potuto spingerli al secondo turno. Forse oltre. Ed è anche chiaro che solo un disaccordo tra le due anime di ultradestra ha evitato un secondo turno ancora più angosciante.
In secondo luogo, un aumento senza precedenti delle disuguaglianze (sociali, economiche, intergenerazionali, regionali, razziali, e così via) ha frammentato e polarizzato la base sociale ed elettorale dei progressisti, rendendo alcuni dei messaggi politici e delle ricette economiche tipicamente associate ai tre pilastri della politica di centrosinistra incompatibili, e spesso non graditi ai rispettivi elettorati. Una parte sostanziale dell'elettorato giovane e multiculturale, precario ma istruito, urbano ma non borghese, per dire, la base dei Bernie Sanders (o Melenchon, o Tsipras, o Jeremy Corbyn) preferirebbe non votare affatto piuttosto che votare per le Hillary Clinton, i Macron, e così via (e avere un'amministrazione Trump, di conseguenza). Allo stesso modo, i liberali progressisti un po' più agiati, di mezza età, di classe media, che occupano il terreno del centro politico o del centrosinistra, preferirebbero non votare per Corbyn (e far trionfare Boris Johnson e trascinarli fuori dall'Europa) piuttosto che affrontare le questioni radicalmente distributive che sia la sinistra che il movimento ecologico sono intenzionati ad affrontare. Qualche decennio fa, personaggi come Olof Palme, Willy Brandt, lo stesso Enrico Berlinguer, avrebbero potuto parlare a tutti loro, di certo a frange più ampie. Ora non più.
In terzo luogo, c'è l'argomento della “guerra culturale”, un argomento che tutte e tre le famiglie politiche della sinistra stanno apparentemente perdendo a favore dei partiti di centro-destra e di estrema destra, più conservatori dal punto di vista sociale. Un vero paradosso, considerando che “l'egemonia culturale” era una volta una risorsa chiave della sinistra, e in un momento in cui anche l'Ue di centro/centrodestra ha finalmente abbracciato una serie di politiche economiche e sociali (ad esempio la parziale sospensione del Patto di stabilità e crescita; una posizione forte sulle libertà civili, lo Stato di diritto e il cambiamento climatico; misure che prevedono l'introduzione di salari minimi decenti in tutta Europa) che sono state a lungo sostenute dai partiti progressisti. Ma, si dice, ora che queste battaglie politiche di lunga data non sono più un terreno di contesa tra sinistra e destra, ciò che resta della sinistra è troppo “woke”, troppo internazionalista, troppo socialmente liberale, troppo radicale per essere seguito dal centro. E l'estrema destra lo sa e lo sfrutta.
Bisogna ammettere che c'è del merito in queste osservazioni. Il loro problema, tuttavia, è che sono solo questo, osservazioni. Un riflesso di alcuni sintomi - sempre più evidenti - di un paesaggio progressivo fratturato. Non identificano però le cause più profonde di queste fratture e certamente non aiuteranno a generare una rinascita della politica progressista europea.
I termini chiave di un nuovo contratto socio-ecologico. È sempre più evidente come il movimento sindacale europeo sia sempre più attratto dall’idea di un nuovo contratto socio-ecologico i cui termini essenziali potrebbero anche emergere come base centrale per il riallineamento dei partiti progressisti europei. I termini chiave di questo contratto farebbero leva sulla forza e sugli interessi fondamentali di ciascuna delle tre tradizioni politiche, i verdi, la sinistra radicale e i socialisti/socialdemocratici, permettendo loro di trovare un terreno comune.
Il primo termine è, come detto prima, legato a una trasformazione ecologica delle nostre società ed economie. Negare a questa trasformazione ecologica un ruolo principale nel dibattito politico equivale a rimandare scelte e decisioni sociali esistenzialmente importanti. Come il movimento dei Verdi sostiene da decenni, il cambiamento climatico non può essere invertito semplicemente per mezzo di progressi tecnologici e “transizioni”, per quanto importanti esse siano. Richiede un cambiamento sostanziale negli stili di vita e nei modelli di produzione e consumo, e l'accettazione che tutte le risorse mondiali sono finite. Una radicale riorganizzazione del modello produttivo e di consumi, con filiere corte e sostenibili. È questo il verdetto anche del recente rapporto Onu.
Il secondo termine di questo nuovo contratto dovrebbe riguardare la redistribuzione delle risorse al fine di correggere i grotteschi livelli di disuguaglianza, tutti esacerbati dalla pandemia, che sono il vero handicap per qualsiasi “giusta trasformazione” verso un modello economico più sostenibile, oltre a corrodere e delegittimare il processo democratico che è essenziale per quella trasformazione. Qui il discorso deve allontanarsi dalla “non discriminazione” o dalle “pari opportunità”, e concentrarsi maggiormente sulle disuguaglianze e, in definitiva, sull'uguaglianza sostanziale e trasformativa. Dovrebbe riguardare le risorse materiali ma anche la voce e la partecipazione al processo decisionale, a livello nazionale e internazionale. È importante riconoscere il contributo della tradizione socialista democratica nello sviluppo di questo dibattito redistributivo.
Il terzo termine dovrebbe riguardare lo sviluppo e il benessere economico condiviso, al fine di garantire (e assicurare a tutti) che il contratto socio-ecologico si basi su un livellamento progressivo delle opportunità e della qualità di vita di tutti. Il dibattito dovrebbe riguardare la “sostenibilità” e il “benessere”. Come i socialdemocratici e i politici di centrosinistra sottolineano da tempo, non dovrebbe riguardare la “decrescita”, un termine che molti considerano altezzoso e astratto. In parte, è anche un termine poco utile, visto e considerato che nell’ultimo ventennio, tra crisi, austerity, e pandemie, i tassi di crescita del Pil nei Paesi membri dell’Unione europea sono stati incerti e altalenanti, e ben al di sotto – in media – del requisito totemico del 3 per cento annuo, visto da molti economisti come il tasso di crescita minimo necessario. Lo sviluppo tecnologico giocherà un ruolo chiave in questo contesto. Ma lo sviluppo dovrà essere sostenibile e i suoi frutti ripartiti equamente.
Questi tre termini del contratto sono ovviamente visibilmente interdipendenti e la misura in cui probabilmente si fonderanno tra loro per raggiungere un modello politico coerente dipende dalla capacità delle tre tradizioni politiche della sinistra europea di valutare e risolvere correttamente tre paradossi fondamentali che hanno afflitto e minato i discorsi progressisti negli ultimi anni.
Risolvere tre paradossi
In primo luogo, i partiti progressisti avranno bisogno di risolvere il “paradosso dell'inazione sul clima”, per cui un'azione efficace per combattere il cambiamento climatico viene procrastinata per paura delle perturbazioni che potrebbe generare ai nostri assetti economici e sociali, mentre allo stesso tempo è sempre più chiaro che più tempo passa per adottare delle misure robuste e risolutive, maggiore sarà il livello di cambiamento radicale che sarà richiesto ai nostri sistemi economici in futuro per gestire il cambiamento climatico. Più aspettiamo, peggio sarà, e più complesse le scelte che dovremo compiere.
Valutare correttamente questo paradosso è la chiave per il successo per una politica progressista di coalizione. La misura in cui il nuovo modello economico dovrebbe discostarsi radicalmente da quello attuale è direttamente correlata alla nostra capacità sociale di affrontare le sfide del cambiamento climatico nel tempo limitato che ci rimane per farlo. Per dirla semplicemente, affrontare il cambiamento climatico trent’anni fa avrebbe richiesto solo una correzione/deviazione minima dal mainstream economico. Ma farlo tra trent’anni, per così dire un minuto prima dell’apocalisse climatica (che in verità non esiste – la metafora più opportuna è quella della rana nell’acqua calda), richiederebbe una revisione totale del nostro stile di vita, con contingentamenti, razionamenti, e lockdown ambientali. A questo punto, l'orologio del cambiamento climatico ci sta chiaramente spingendo a considerare soluzioni molto radicali. E più aspettiamo, più radicali e dirompenti dovranno essere. Si dovranno trovare dei compromessi attenti e realistici per affrontare questo paradosso.
In secondo luogo, dovranno risolvere il “paradosso dello svantaggio sociale legato al cambiamento climatico“, per cui i gruppi socialmente ed economicamente più svantaggiati sono allo stesso tempo meno responsabili per il cambiamento climatico, più esposti al suo impatto, ma anche più riluttanti ad abbracciare qualsiasi trasformazione radicale che possa richiedere sacrifici economici a breve termine per benefici di sostenibilità a lungo termine.
Prendiamo come esempio i milioni di lavoratori impiegati nelle industrie che probabilmente saranno colpiti in modo sproporzionato da una transizione verde. O quelle famiglie a basso reddito le cui bollette mensili, e gli stili di vita in generale, sono sproporzionatamente esposti a beni e servizi che probabilmente diventeranno più costosi o più scarsi come conseguenza di un'azione volta a contrastare il cambiamento climatico. Affrontare questo paradosso richiederà il giusto mix di politiche di welfare redistributivo e universalistico, ma anche una redistribuzione della voce, del potere nelle nostre società e nei nostri luoghi di lavoro, e di una reale partecipazione al processo decisionale. Non c'è posto migliore del luogo di lavoro per avviare questi processi redistributivi.
In terzo luogo, dovranno risolvere i “paradossi tecnologici“ associati agli sviluppi della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. Il presente e il futuro dell'innovazione tecnologica sono annunciati da molti come la pietra filosofale che potrebbe facilitare la transizione verso un futuro più sostenibile, democratico, resiliente, prospero e giusto, senza sacrificare troppo la scelta e la libertà che alcuni (non tutti) si sono abituati a dare per scontate. Ci sono sempre più richieste di “algoritmi etici” che affrontino la diffusione dell'ideologia di estrema destra e facilitino le iniziative di finanza verde. Ma, allo stesso tempo, gli effetti dello sviluppo tecnologico sembrano minacciare la sostenibilità del progresso, i nostri diritti sul lavoro e persino i nostri accordi istituzionali democratici e sociali. Risolvere questo paradosso tecnologico, attraverso regole che siano partecipate, eque e non soffochino la ricerca, lo sviluppo o la libertà di parola, dovrebbe essere una questione prioritaria per i partiti verdi, socialdemocratici e di sinistra.
La sfida delle idee - oltre l’interregno
Ogni qual volta una crisi più o meno profonda ci lascia disorientati rispetto al futuro e in cerca di risposte a domande complesse siamo soliti scomodare Antonio Gramsci e il suo concetto di interregno. Interregno dopo la crisi finanziaria del 2007-2008. Interregno dopo l’austerità del decennio precedente. Interregno anche a seguito della pandemia. Quasi ci confortasse l’idea che il “vecchio” sia morto o moribondo, e che il nuovo stenti a nascere. Ma molto spesso questo conforto lascia spazio a quello che Gramsci stesso qualificava come “torpore intellettuale”, anch’esso foriero di ben più gravi sciagure.
Forse una metafora più opportuna per descrivere i rischi ma anche le opportunità del nostro tempo è la metafora del condominium. Il “vecchio” non è morto – tutt’altro. Per esempio, il Patto di stabilità potrebbe essere ripristinato a breve, ci potrebbe essere un nuovo orientamento neomonetarista finalizzato a contenere le spinte inflazionistiche e la spesa e i disavanzi pubblici, e non è da escludere una nuova corsa agli armamenti. Va anche detto che suggerire che il nuovo non sia ancor nato è forse tanto erroneo quanto poco generoso. In particolare, nei confronti di tutte e tutti coloro che nel mondo sindacale, accademico, nel sociale, lavorano quotidianamente per concepire e sviluppare delle idee di trasformazione della società, mettendo l'accento sulle forze e sull’azione dei soggetti collettivi e politici.
Queste idee nuove, miranti a creare futuri sostenibili, equi, e democratici esistono (talvolta in ordine sparso), e coesistono con il vecchio, con il quale si contendono risorse, politiche ed economiche, e anche una nuova egemonia. È forse questa la sfida del sindacato e delle forze politiche progressiste: sviluppare una visione concreta e realizzabile per un nuovo contratto sociale, che riunisca le risorse del lavoro e della sinistra, uniche capaci di garantire un futuro sostenibile, equo, e democratico (un trinomio inscindibile) alle prossime generazioni. E alla nostra.
* Nicola Countouris, direttore del Dipartimento di ricerca dell'Istituto sindacale europeo (Etui) e professore di diritto del lavoro e diritto europeo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'University College di Londra