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Càpita ai sindacati di subire gloriose sconfitte, di perdere battaglie che era giusto combattere anche sapendo di perdere. E la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane è stata una sconfitta per il mondo del lavoro organizzato: se non gloriosa, senz’altro pesante.
Le maggiori centrali sindacali nordamericane, con l’eccezione dei Teamsters, hanno ingaggiato una campagna pancia a terra per convincere i propri iscritti a votare Kamala Harris, un voto in realtà contro Trump, identificato come un nemico del Lavoro per quello che ha fatto e minacciato di fare.
Non ha funzionato. Anche oltre l’immaginabile. Perché il candidato repubblicano alla Casa Bianca non ha vinto con pochi voti di scarto. E, come ha osservato Doug Sosnik, ex consulente politico della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, “le elezioni del 2024 segnano la svolta a destra più significativa del nostro Paese dal trionfo di Ronald Reagan nel 1980”.
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È stato un voto sull’economia
Eppure il voto presidenziale 2024, negli Stati Uniti, si è giocato proprio sull’economia. Sui redditi. Sul caro vita. Temi chiave anche della mobilitazione sindacale. Mentre i diritti civili, la difesa dell’aborto, la tutela delle donne e delle minoranze, su cui la campagna dei democratici aveva molto insistito, hanno pesato meno.
Come ha osservato Lora Kelley sull’Atlantic, “milioni di americani hanno votato spinti dalla preoccupazione e dalla frustrazione per la situazione economica, sentimenti alimentati da Donald Trump, che ha sostenuto di essere l’unico in grado di risolvere i problemi del Paese”.
La frustrazione per un’inflazione a doppia cifra ha demolito i buoni risultati della Bideneconomics e ha alimentato un sentimento anti-governativo che trova le proprie radici già nel periodo del Covid e dei suoi danni economici.
L’affermazione elettorale di Trump è stata vasta e uniforme, il suo consenso si è ampliato non solo negli Stati in bilico, ma anche in quelle che erano tradizionali roccaforti democratiche.
“La spiegazione è piuttosto semplice - spiega il politologo Thomas Wood all’Atlantic -, l’insoddisfazione diffusa per la gestione economica di Biden ha influenzato la maggior parte dei gruppi demografici in modo omogeneo”.
La paura dentro le urne elettorali
Le prime analisi del voto confermano la forte carica di ansia, anche irrazionale, che ne ha deciso l’esito. Circa 9 elettori su 10 si sono detti preoccupati per il costo dei generi alimentari, mentre circa 8 su 10 lo sono per i costi dell'assistenza sanitaria, dell’abitazione e del carburante.
Specialmente negli Stati in bilico, aumenta l’approvazione per la linea dura promessa da Trump contro gli immigrati. Circa 4 elettori su 10 hanno dichiarato che gli immigrati che vivono negli Stati Uniti senza documenti dovrebbero essere deportati nel loro Paese d’origine: nelle presidenziali del 2020 il rapporto fu di circa 3 su 10.
Il successo di Trump tra i latinos
Sembra inoltre corretta questa analisi della Reuters, là dove si osserva che “a seguito della campagna populista in cui ha promesso di proteggere i lavoratori dalla concorrenza economica globale e ha offerto una vasta gamma di proposte di taglio delle tasse, la crescente forza di Trump tra gli elettori della classe operaia e gli americani non bianchi ha contribuito a far crescere la sua quota di voto quasi ovunque”.
Eclatante il voto degli elettori ispanici, una comunità che finora aveva sempre premiato i democratici. Ma non questa volta: secondo un exit poll condotto da Edison Research, circa il 46% di loro ha scelto Trump. Un balzo in avanti di 14 punti rispetto al 32% del 2020, quando Trump fu sconfitto da Joe Biden.
Gli ispanici appartengono alla classe operaia più di altre comunità, hanno quote maggiori di persone prive di diplomi universitari, e sono più giovani della media americana. Sono quindi più esposti ai problemi economici, all’inflazione, all’impennata dei tassi di interesse sui mutui.
Più voti per Trump nella working class
Ma, stando a un exit poll Edison Research ripreso sempre dalla Reuters, Trump ha confermato il successo del 2016 anche tra gli elettori bianchi della classe operaia. Era stato il candidato repubblicano più votato di sempre e, secondo Edison Research, ha bissato quel “dominio”, “ottenendo il 66% dei loro voti”.
E non è un caso che più di tre quarti degli elettori bianchi working class, senza laurea, abbiano descritto la propria situazione economica in termini negativi, così come sette latinos su dieci. Una bocciatura netta delle politiche economiche di Biden, e un voto di sfiducia per Harris.
Significativo quanto accaduto in Pennsylvania, dove molti lavoratori sindacalizzati del settore manifatturiero e siderurgico, sfidando le indicazioni di voto delle loro unions, si sono mobilitati e organizzati a favore di Trump. "Gli operai siderurgici non hanno abbandonato i democratici - ha affermato Richard Tikey, operaio alla US Steel e sindacalista della United Steelworkers -, sono i democratici che hanno abbandonato gli operai siderurgici".
Le reazioni dei sindacati: “Un duro colpo”
“Questo risultato – ha commentato la presidente dell'Afl-Cio Liz Shuler – è un duro colpo per ogni lavoratore”, per “i nostri sindacati e i nostri contratti. Ci siamo organizzati per mesi per produrre un vantaggio di quasi 17 punti per la vicepresidente Kamala Harris tra i membri del sindacato. Ma è chiaro che la lotta economica che la classe operaia sta affrontando sta causando un dolore reale e nessuna delle due parti (Trump e Harris, ndr) l'ha affrontata a sufficienza".
"Ora – conclude Shuler – ci troviamo di fronte alla realtà di un secondo mandato di Donald Trump. L'agenda del Project 2025 promette di smantellare i sindacati perché siamo un pilastro della democrazia e un freno al potere. Abbiamo già assistito ad attacchi ai nostri diritti fondamentali”.
“La nostra lotta continua”
Nessuna autocritica, invece, da Shawn Fain, leader del sindacato dell’automotive Uaw: “Abbiamo sempre detto che non importa chi sia alla Casa Bianca, la nostra lotta rimane la stessa. (…) La lotta per buoni posti di lavoro sindacali e la leadership degli Stati Uniti nell'industria emergente delle batterie continua. La lotta per una pensione sicura per tutti in questo Paese continua. La lotta per un salario dignitoso, un'assistenza sanitaria accessibile e tempo per le nostre famiglie continua”.
“Ha vinto la rabbia”
April Verrett, combattiva presidente del Service Employees International Union (Seiu), ricorda invece che “I 2 milioni di membri del Seiu hanno fatto un lavoro monumentale in queste elezioni, raggiungendo più di 7 milioni di elettori in 12 lingue”. E aggiunge: “Non siamo sconfitti, siamo determinati. E non ci tireremo indietro. Restiamo uniti gli uni agli altri e alla nostra visione di un futuro sano, gioioso e prospero. E non lasceremo che nessuno ci divida in base al razzismo, al sessismo o alla paura”.
“La scorsa notte, abbiamo visto vincere la paura e la rabbia”, ha osservato invece Randi Weingarten, presidente dell’American Federation of Teachers: “Nei prossimi giorni si parlerà molto di ‘avremmo potuto, avremmo dovuto…’. Ma, per la maggior parte delle persone che hanno votato, e ne abbiamo incontrate molte durante il nostro tour per il Paese, il punto era ‘Chi ci aiuterà a migliorare la nostra vita, quella delle nostre famiglie e delle nostre comunità?’. Noi credevamo fosse Kamala Harris; più persone hanno creduto fosse Donald Trump”.
Trump e il lavoro: cosa farà?
Forte del suo nuovo mandato, di un probabile controllo su entrambe le Camere del Congresso, e di una solida maggioranza conservatrice alla Corte Suprema, Trump non avrà vincoli nel realizzare le proprie politiche economiche.
Del Project 2025 e del suo programma anti-sindacale abbiamo già parlato: è una minaccia che resta sullo sfondo, anche se Trump continua a negare qualsiasi paternità sul documento elaborato dai suoi sostenitori. Quello che è certo è che nemmeno nei prossimi quattro anni sarà approvato il Pro Act, la grande riforma del lavoro.
Ma cos’altro c’è da aspettarsi? Secondo ProPublica niente di buono. Il sito di informazione ha analizzato le misure del primo mandato di Trump (2016-2020): “Abbiamo trovato che, durante la sua presidenza, Trump ha avanzato un'agenda mirata a tagliare i programmi di assistenza sanitaria, alimentare e abitativa e le protezioni lavorative per gli americani della classe operaia e poveri”, scrive ProPublica.
Peggio di Ronald Reagan
“Trump ha proposto tagli significativamente più profondi ai programmi per le persone a basso e medio reddito rispetto a qualsiasi altro presidente, incluso Reagan”, ha affermato Robert Greenstein, esperto di politiche federali di povertà, citato sempre da ProPublica.
Secondo ProPublica, in coerenza col suo primo mandato, Trump potrebbe:
- Tagliare i finanziamenti al Programma di assicurazione sanitaria per i bambini.
- Revocare a quasi un milione di bambini l'idoneità per i pasti scolastici gratuiti.
- Congelare le borse di studio Pell per studenti universitari a basso reddito, senza adeguarle all'inflazione.
- Eliminare più programmi per incrementare l'offerta e gli investimenti in alloggi a prezzi accessibili nelle comunità a basso reddito.
- Limitare i diritti di contrattazione collettiva dei sindacati.
Senza dimenticare che Trump non ha mai rinunciato al suo obiettivo di smantellare l'Affordable Care Act (Aca), che sostiene in gran parte gli americani a basso reddito.
Quegli stessi americani che gli hanno dato fiducia nel voto per la Casa Bianca, lo scorso 5 novembre. Perché l’hanno fatto? Forse, per citare una vecchia battuta di Woody Allen, perché hanno bisogno delle uova.