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La debacle di Biden. Il fallimento in Afghanistan è un duro colpo per l'America. E gran parte della colpa è di Joe Biden
The Economist, 21 agosto 2021
Se i propagandisti dei talebani avessero dovuto inscenare il crollo della missione ventennale americana per rimodellare l'Afghanistan, non avrebbero potuto avere immagini più strazianti. Mentre gli insorti penetravano a Kabul, gli afghani disperati, terrorizzati da ciò che i vittoriosi fanatici avrebbero potuto fare, inseguivano gli aerei cargo americani in partenza lungo la pista, cercando di arrampicarsi sul carrello di atterraggio e cadendo inevitabilmente verso la morte. Il governo sostenuto dagli americani si è arreso senza combattere, cosa che, secondo quanto hanno detto i funzionari americani soltanto alcuni giorni prima, non sarebbe successo. Gli afgani sono stati lasciati in una trappola così raccapricciante che aggrapparsi alle ruote di un aereo in volo sembrava la scelta migliore.
L'America ha speso 2 trilioni di dollari in Afghanistan; sono state perse più di 2.000 vite americane, per non parlare delle innumerevoli vite di afghani. Eppure, anche se gli afgani ora stanno meglio rispetto a quando l'America invase il Paese, l'Afghanistan si trova al punto di partenza. I talebani controllano gran parte del Paese, più di quanto ne controllassero quando persero il potere, sono armati meglio, con le armi sequestrate che l'America ha fatto piovere sull'esercito afghano, e ora hanno ottenuto l'affermazione definitiva: sconfiggere una superpotenza.
Gli insorti hanno dato prova di magnanimità, impegnandosi a non vendicarsi di coloro che hanno lavorato per il governo rovesciato e insistendo sul rispetto dei diritti delle donne, in base alla loro interpretazione della legge islamica. Ma questa interpretazione ha tenuto la maggior parte delle ragazze lontane dalla scuola e la maggior parte delle donne confinate nelle loro case quando i Talebani sono stati precedentemente al potere negli anni '90. Le punizioni brutali, come fustigazioni, lapidazioni e amputazioni, erano frequenti. Le libertà che gli afgani delle città hanno dato per scontate negli ultimi vent'anni sono appena sfumate. È un risultato vergognoso per i 39 milioni di afgani e profondamente dannoso per l’America.
Non sorprende il fatto che l'America non sia riuscita a trasformare l'Afghanistan in una democrazia. È difficile realizzare il nation-building e pochi immaginavano che sarebbe potuta diventare la Svizzera. Non era insensato che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden volesse porre fine al conflitto. L'America ha passato vent'anni in un luogo di importanza strategica modesta di cui la maggior parte degli elettori americani ha smesso di interessarsi da tempo. La ragione vera dell'invasione - smantellare la base principale operativa di Al Qaeda - è stata ampiamente raggiunta, anche se questo risultato ora potrebbe essere ribaltato.
L’affermazione secondo cui l'America si sta dimostrando un alleato volubile per aver permesso che il governo afghano cadesse è esagerata, se si considera la durata, la portata e le spese del dispiegamento americano. Il defunto regime di Kabul non è stato un alleato come lo sono la Germania o il Giappone. Era molto più debole, più corrotto e la sua sopravvivenza dipendeva completamente dall'America. Ma questo non poteva assolvere l'America dalla responsabilità di ritirarsi in modo ordinato. Biden non è stato in grado di mostrare neanche un minimo di attenzione per il benessere dei civili afghani. L'ironia è che l'America aveva un piano che ha elaborato per parecchi anni. Aveva ridimensionato enormemente le sue truppe, passate da circa 100.000 soldati nel 2011 a meno di 10.000 nel 2017, accompagnati da un numero simile di altri Paesi della Nato. Non dovevano sconfiggere i talebani, ma impedire il disfacimento dell'esercito afghano, in gran parte attraverso la forza aerea, e costringere così i talebani al tavolo dei negoziati.
I sostenitori di Biden ritengono che il suo predecessore, Donald Trump, avesse già fatto naufragare questo piano cercando di accelerarlo per portarlo a termine prima delle elezioni presidenziali dello scorso anno in America. È vero che Trump voleva raggiungere disperatamente un accordo rapido tanto da accettare termini assurdi, concordando la fine del dispiegamento americano senza nemmeno garantire un cessate il fuoco né un piano chiaro che ponesse fine alla guerra civile. Aveva già ridotto la presenza americana a poco più di 2.000 soldati quando Biden si insediava e aveva promesso di ritirare il resto entro il 1° maggio.
Biden non doveva attenersi a questo accordo. In effetti, non lo ha fatto del tutto, rifiutandosi di attenersi al calendario originale. I talebani chiaramente non hanno fatto la loro parte rispettando l’accordo, spingendo per realizzare vantaggi sul campo di battaglia invece di negoziare in buona fede con il governo afghano. Questo poteva essere il motivo per fermare o invertire il ritiro americano. In America c’è stata poca pressione politica per far finire la guerra rapidamente. Eppure, Biden ha lavorato per una conclusione della guerra arbitraria e superficiale, cercando di porre fine alla guerra entro il 20° anniversario dell'11 settembre. Sebbene la velocità con cui il governo afghano è imploso abbia sorpreso la maggior parte degli osservatori, tra cui l’Economist, i soldati e i politici americani sono stati tra gli ottimisti più ingenui, insistendo sul fatto che un crollo totale fosse una prospettiva praticamente trascurabile. E quando è diventato chiaro che l’esercito afghano si stava dissolvendo, Biden ha insistito con intransigenza, nonostante le possibili conseguenze.
Per questo motivo, il potere dell'America di dissuadere i suoi nemici e rassicurare i suoi amici è diminuito. Le informazioni fornite dai servizi di sicurezza erano imperfette, i piani rigidi, i dirigenti capricciosi e la preoccupazione per gli alleati minima. Questo probabilmente incoraggerà i jihadisti di tutto il mondo, che brandiranno la vittoria dei talebani come una prova che Dio è dalla loro parte. Inoltre, incoraggerà l’avventurismo dei governi ostili come la Russia o la Cina, farà preoccupare gli amici dell'America. Biden ha difeso il ritiro sostenendo che l'Afghanistan distraesse dai problemi più urgenti, come la rivalità dell'America con la Cina. Ma lasciando l'Afghanistan in questo modo caotico, Biden ha reso questi altri problemi più difficili da affrontare.
Il ritiro caotico non riduce l'obbligo che l'America e i suoi alleati hanno nei confronti dei civili afgani, bensì lo aumenta. Dovrebbero usare tutta l'influenza che ancora hanno per chiedere con urgenza moderazione ai talebani, specialmente per quanto riguarda le donne. Gli sfollati avranno bisogno di aiuti umanitari. I Paesi occidentali dovrebbero accogliere più rifugiati afgani, le cui fila probabilmente si ingrosseranno, e fornire assistenza generosa ai Paesi vicini dell'Afghanistan affinché si prendano cura di coloro che rimangono nella regione. La fretta dei capi di Stato e di governo europei di dichiarare che non possono accogliere molti afgani perseguitati, mentre fanatici violenti prendono il controllo della situazione, è deplorevole quasi quanto il fallimento con cui è uscita l'America. È troppo tardi per salvare l'Afghanistan, ma c'è ancora tempo per aiutare il suo popolo.
Per leggere l'articolo originale: Biden’s debacle. The fiasco in Afghanistan is a grave blow to America’s standing
Firmato l’accordo per proteggere i lavoratori bengalesi del settore dell’abbigliamento
The New York Times, 26 agosto 2021
Dopo lo stallo dei negoziati durato mesi tra i rivenditori di moda a livello internazionale, i sindacati e i proprietari delle fabbriche locali, mercoledì (25 agosto) è stato siglato un nuovo accordo volto a proteggere i lavoratori del settore dell'abbigliamento in Bangladesh. Il nuovo patto (l'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nel settore tessile e dell'abbigliamento) entrerà in vigore mercoledì prossimo (1 settembre) e sostituirà l'Accordo base sugli incendi e sulla sicurezza degli edifici, stipulato nel 2013 in seguito al crollo della fabbrica Rana Plaza, che provocò la morte di 1.100 lavoratori dell'abbigliamento. In base all'intesa originale, quasi 200 marchi internazionali, tra cui H&M, PVH e Primark, hanno concordato per la prima volta impegni giuridicamente vincolanti sulla sicurezza, sulle ispezioni indipendenti nelle fabbriche e sui contributi alla formazione sulla sicurezza e ai miglioramenti della fabbrica.
Mentre l'accordo base si avvicinava alla scadenza e il settore della moda del Bangladesh continuava a fare i conti con le conseguenze negative della pandemia, c’è stato un confronto diffuso su ciò che sarebbe potuto avvenire in futuro. Il nuovo accordo conserva molte caratteristiche di quello originale, inclusa la possibilità di perseguire legalmente i rivenditori se le loro fabbriche non dovessero rispettare le norme sulla sicurezza del lavoro; la responsabilità condivisa della governance tra i fornitori e i marchi; la formazione e il monitoraggio del Comitato per la sicurezza supervisionati dall’organismo denominato Rmg Sustainability Council con sede in Bangladesh; e un meccanismo indipendente per le denunce. Inoltre, i marchi si sono impegnati a estendere il nuovo accordo ad almeno un altro paese oltre il Bangladesh. La validità è di 26 mesi.
“Siamo estremamente incoraggiati da questo nuovo accordo, che mantiene gli obblighi chiave di quello originale e, si spera, possa assicurare credibilità e responsabilità in un momento critico per il settore dell'abbigliamento del Bangladesh”, ha affermato Christy Hoffman, segretaria generale della federazione sindacale internazionale firmataria degli accordi, UNI Global union, con sede in Svizzera, che rappresenta 150 paesi.
Il rivenditore svedese H&M è stato il primo marchio ad aver confermato di aver firmato il nuovo accordo, seguito da Inditex, e da altri che dovrebbero seguire l'esempio nei prossimi giorni. Ma si pensa che i rivenditori americani come Walmart e Target non parteciperanno all’accordo. I due rivenditori americani, insieme ad altre aziende americane tra cui Gap, hanno firmato l'accordo sulla sicurezza nel 2013, l’Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh, che non era giuridicamente vincolante e che è scaduto nel 2018. Secondo l'Organizzazione Mondiale del Commercio, il Bangladesh è stato dal 2010 il secondo esportatore di abbigliamento al mondo dopo la Cina, ma lo scorso mese, tra le chiusure dovute alla pandemia e all'aumento dei casi di coronavirus, ha perso questo posto in classifica che è stato invece conquistato dal Vietnam. Il settore dell'abbigliamento è diventato la base dell'economia del Paese che conta una popolazione di 166 milioni di abitanti.
Per leggere l'articolo originale: Accord Is Signed to Protect Bangladeshi Trade Workers
La disuguaglianza globale dei vaccini, imprudente nonché immorale
The Guardian, 26 agosto 2021
Le statistiche sono tristi e vergognose. Durante l’intervento esasperato fatto all’inizio di questa settimana, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha sottolineato che, ad oggi, sono state consegnate 4.8 miliardi di dosi di vaccino nel mondo, il 75% circa di queste dosi è andato solo a 10 Paesi. Il livello con cui i Paesi più ricchi hanno donato i vaccini, ha aggiunto con un certo eufemismo, è stato “realmente deludente”. In Africa, dove sta girando, da maggio, la terza ondata del virus, meno del 2% della popolazione del continente ha ricevuto la prima dose. Mentre i Paesi ad alto reddito nel mondo hanno somministrato circa 100 dosi ogni 100 cittadini, il rapporto nei Paesi a reddito basso è di 1.5.
Di conseguenza, mentre gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri Paesi ricchi inizieranno ad autunno i programmi per i vaccini di richiamo, i non vaccinati continueranno senza sosta a non esserlo. È improbabile che l’Oms riesca a conseguire l’obiettivo di raggiungere il 10% della popolazione di ogni Paese con una prima dose entro la fine di settembre. Questa disuguaglianza grottesca, come Ghebreyesus e altri hanno ripetutamente sottolineato, alla fine non fa l’interesse di nessuno: permette a gran parte del pianeta di diventare la fabbrica di varianti, e alla variante Delta, la più contagiosa, di scatenarsi per creare problemi per il futuro. “Vaccinare il mondo” dovrebbe essere visto come una buona strategia, nonché un obbligo etico. Ma, in Europa e in America del nord, fino a oggi, le buone intenzioni sono passate in secondo piano rispetto alle priorità nazionali.
I governi che dispongono dei mezzi si sono garantiti accordi preferenziali sui vaccini, hanno ordinato numeri superiori di dosi, le hanno accumulate e hanno limitato le esportazioni. La Gran Bretagna ha avuto un ruolo di primo piano nell’opporsi agli appelli di revocare temporaneamente i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini. In generale, le donazioni dei Paesi ricchi non hanno raggiunto il livello richiesto. Il programma di vaccinazione Covax non ha dato i risultati attesi, ha perso la sua fonte principale di approvvigionamento in seguito alla decisione dell’India di vietare le esportazioni di AstraZeneca. Sul terreno, i finanziamenti, il tempo e gli sforzi insufficienti sono stati spesi per assicurare che, quando le dosi saranno disponibili, l’infrastruttura sarà pronta a portare avanti in modo efficiente i programmi di vaccinazione. È probabile che la maggior parte delle persone nei Paesi a reddito basso debba aspettare fino al 2023 per essere vaccinata. Secondo uno studio pubblicato oggi, questo avvio disperatamente lento costerà all’economia globale una perdita di produzione di 2.3 miliardi di dollari.
Forse più per la speranza che non nella certezza, l’Oms ha chiesto una moratoria di due mesi sulla somministrazione dei vaccini di richiamo nei Paesi ricchi. Una decisione politica simile incontrerebbe molti ostacoli. Ma si deve trovare un modo per aumentare drasticamente la fornitura a quei Paesi che lottano per fornire il primo e il secondo vaccino. Come hanno riconosciuto il Fmi, la Banca Mondiale e l’Omc, che hanno istituito una task force congiunta sui vaccini, il livello di disuguaglianza è insostenibile. Mentre le ondate successive di Covid-19 colpiscono i Paesi ricchi, la gestione delle crisi interne ha oscurato tutte le altre preoccupazioni. Ma perché il mondo esca dalla pandemia in modo sostenibile, è assolutamente indispensabile che vi sia un approccio più strategico ed equo.
Per leggere l'articolo originale: Global vaccine inequality: unwise as well as unethical
La resilienza in un mondo più a rischio di catastrofi naturali
di Armida Salsiah Alisjahbana*, Inter Press Service, 25 agosto 2021
Negli ultimi vent’anni la regione dell’Asia–Pacifico ha compiuto progressi notevoli nella gestione del rischio di catastrofi naturali. Ma i Paesi non possono abbassare la guardia. La pandemia di Covid–19, con il suo epicentro in Asia, e tutte le sue tragiche conseguenze, ha evidenziato le fragilità delle società umane di fronte alla potenza delle forze naturali. A metà agosto 2021, i Paesi dell’Asia e del Pacifico hanno registrato 65 milioni di casi di coronavirus e più di 1 milione di decessi. A ciò si aggiungono gli eventi climatici estremi che stanno colpendo il mondo intero. Anche se le varie zone geografiche presentano contesti diversi, il collegamento con il cambiamento climatico è evidente, dato che le inondazioni hanno colpito parti della Cina, dell’India e dell’Europa occidentale, mentre le ondate di calore e gli incendi hanno devastato zone dell’America del Nord, dell’Europa meridionale e dell’Asia.
L’impatto umano ed economico delle catastrofi naturali, compresi quelli biologici, e del cambiamento climatico sono stati documentati nel Rapporto Onu per il 2021 sulle catastrofi naturali nell’Asia e nel Pacifico, nel quale si dimostra che il cambiamento climatico sta aumentando il rischio di eventi estremi così come di ondate di calore, forti precipitazioni e inondazioni, siccità, cicloni tropicali e incendi. Si pensa che le ondate di calore, e soprattutto i relativi danni biologici, siano destinati ad aumentare nell’Asia nordorientale, mentre l’Asia sudoccidentale andrà incontro a forti inondazioni e a malattie. Eppure, negli ultimi decenni, sono morte meno persone in seguito all’introduzione di maggiori sistemi di allarme rapido e all’azione rapida di protezione, ma anche perché i governi hanno iniziato ad apprezzare l’importanza di affrontare il rischio delle catastrofi naturali in modo integrato, invece di dare risposte solo in base al singolo pericolo.
Tuttavia, c’è ancora molto da fare. Come ha dimostrato la pandemia di Covid–19, la maggior parte dei Paesi è ancora impreparata ad affrontare il sovrapporsi di crisi multiple, che spesso si verificano a cascata, con una che ne scatena un’altra. Ad esempio, i cicloni tropicali possono provocare inondazioni, che a loro volta provocano malattie ed esacerbano la povertà. Nei cinque punti caldi della regione, dove la popolazione è maggiormente a rischio, la devastazione umana ed economica, quando queste crisi si intersecano e interagiscono tra di loro, mette in evidenza il pericolo in cui vivono i poveri nei diversi bacini fluviali vasti dell'area.
Le catastrofi naturali non solo costituiscono una minaccia per le vite umane, ma anche per i mezzi di sostentamento. E rischiano di avere un costo maggiore in futuro, dato che l’impatto è aggravato dal cambiamento climatico. Le perdite annuali causate dai rischi naturali e biologici in Asia e nel Pacifico sono stimate attorno ai 780 miliardi di dollari. Nel peggiore scenario del cambiamento climatico, le perdite economiche annue derivanti da questi rischi a cascata potrebbero aumentare a 1.3 trilioni di dollari, equivalenti al 4.2% del Pil regionale.
Invece di guardare all’inevitabilità dei costi umani ed economici, i Paesi farebbero molto meglio a garantire una maggiore resilienza per le loro popolazioni e le loro infrastrutture. Questo comporterebbe il rafforzamento di infrastrutture come ponti e strade, così come scuole e altri edifici che danno rifugio e appoggio in tempi di crisi. I governi dovrebbero, innanzitutto, investire in infrastrutture sanitarie più solide. Questo richiederebbe risorse consistenti. Il costo annuale per l'adattamento ai rischi naturali e ad altri rischi biologici nello scenario peggiore del cambiamento climatico è stimato in 270 miliardi di dollari. Tuttavia, è un costo sostenibile solo per un quinto delle perdite annuali stimate, ossia lo 0,85% del Pil dell'Asia-Pacifico.
Da dove possono arrivare ulteriori finanziamenti? Alcuni potrebbero arrivare dal normale gettito fiscale. Inoltre, i governi possono guardare a fonti di finanziamento nuove e innovative, come l’emissione di titoli per la resilienza climatica, le conversioni di debiti in azioni (swap debito-per-resilienza) e le iniziative per la riduzione del debito.
Il Covid-19 ha dimostrato ancora una volta come tutti i rischi di catastrofi naturali siano interconnessi, come la crisi di salute pubblica possa rapidamente innescare un disastro economico e sconvolgimenti sociali. Questo è ciò che si intende per "rischio sistemico", e questo è il tipo di rischio che i politici devono affrontare ora se vogliono proteggere i più poveri.
Questo non significa dare una semplice risposta rapida con pacchetti di aiuti, ma anticipare le emergenze e creare sistemi solidi di protezione sociale che rendano le comunità vulnerabili più sicure e resilienti. Fortunatamente, come illustra il rapporto, le nuove tecnologie, spesso sfruttando la diffusione capillare dei telefoni cellulari, stanno dando più opportunità per collegare le persone e le comunità al sostegno finanziario e ad altre forme di aiuto. Per meglio identificare, comprendere e interrompere i meccanismi di trasmissione del Covid-19, i Paesi si sono rivolti a "tecnologie di frontiera", come l'intelligenza artificiale e la manipolazione dei grandi dati. Inoltre, hanno utilizzato modelli di tecniche avanzate per la rilevazione, la diagnosi rapida e il contenimento precoce.
L'Asia e il Pacifico sono una regione immensa e diversificata. I rischi di catastrofi naturali nelle steppe dell'Asia centrale sono molto diversi da quelli dei piccoli stati insulari del Pacifico. Tuttavia, ciò che tutti i Paesi dovrebbero avere in comune sono principi solidi per gestire i rischi in caso di catastrofi naturali in modo più coerente e sistematico, principi da applicare con impegno politico e una forte collaborazione regionale e subregionale.
Per leggere l'articolo originale: Resilience in a Riskier World
* Armida Salsiah Alisjahbana è sottosegretario generale delle Nazioni Unite e segretario esecutivo della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l'Asia e il Pacifico
“Non c’è nulla da mangiare”: crisi climatica, Covid e conflitto, triplice minaccia per la Somalia
The Guardian, 23 agosto 2021
La sovrapposizione delle crisi ha spinto il fragile Paese dell’Africa orientale sull’orlo di una catastrofe umanitaria, una persona su quattro si trova in una situazione di insicurezza alimentare.
L’orrore emerso nel suo villaggio è stato tale da indurre Fadumo Ali Mohamed a decidere di andarsene all’inizio di quest’anno. Ha attraversato la regione del Basso Scebeli in Somalia con i suoi nove figli, camminando per 30 chilometri, e alla fine ha trovato aiuto per raggiungere la capitale in auto. Ora si trova a Mogadiscio, dove è una delle 800.000 persone sfollate del Paese che vivono in insediamenti angusti e informali con accesso limitato a cibo, acqua e assistenza sanitaria. Non le piace ricordare la violenza da cui è fuggita: “I combattimenti tra i due clan non ci hanno permesso di spostarci da nessuna parte per due giorni. Ho perso mio cugino e mia zia nel fuoco incrociato”. “Le milizie in guerra hanno bloccato i pozzi dove nessuno osava avvicinarsi, così ho deciso di fuggire con i miei figli”. "I miei figli hanno visto scene drammatiche di orrore che hanno trasformato il loro quartiere in un 'villaggio fantasma'. Odio ricordare quell’incubo, case in fiamme e persone bisognose di aiuto che morivano lungo la strada”. “Hanno combattuto per molto tempo, ma la situazione recentemente è peggiorata sempre di più”.
La siccità prolungata, le risorse d’acqua ridotte e la terra fertile assente stanno alimentando tensioni tra i clan e stanno spingendo le persone a spostarsi in tutta la Somalia. La sovrapposizione di crisi sta minacciando questo fragile Paese dell’Africa orientale, con la crisi climatica che sta esasperando i conflitti esistenti e contribuendo a crearne di nuovi, il Covid–19 che uccide vite umane e i mezzi di sostentamento e l’instabilità politica che non si allontana mai.
Le agenzie umanitarie avvertono che la conseguenza di tutto questo è la fame: la Federazione della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa ha avvertito questo mese che la Somalia è “sull’orlo di una catastrofe umanitaria”, con una persona su quattro che affronta livelli alti di insicurezza alimentare grave e più di 800.000 bambini sotto i cinque anni a rischio di malnutrizione grave.
Mohammed Mukhier, direttore regionale dell'Ifrc per l'Africa, afferma: "La Somalia è uno dei posti più rischiosi della Terra in cui vivere in questo momento. Il Paese è un elenco di catastrofi. Disastri legati al clima, conflitti e Covid-19 si sono coalizzati in una grande crisi umanitaria per milioni di persone. Non possiamo continuare a parlarne; dobbiamo ridurre la sofferenza ora".
Per Mohamed, che vive in un piccolo rifugio di fortuna con i suoi figli, e riesce a mangiare solo una volta al giorno, l'avvertimento riecheggia. "Ci guadagnavamo da vivere lavando i vestiti per la gente in città, ma quando è iniziata la seconda ondata di coronavirus, tutti hanno chiuso le porte". "La vita è diventata estremamente difficile. Non abbiamo niente da mangiare".
La Somalia ha un’economia fragile basata in gran parte sull'agricoltura, è vulnerabile ai modelli meteorologici sempre più imprevedibili ed estremi, alla siccità e alle inondazioni stagionali continue. Con la siccità i raccolti si guastano e il bestiame muore per mancanza di acqua e cibo, con le inondazioni sono semplicemente spazzati via. Il Paese, come gran parte della regione, ha dovuto affrontare quest'anno e l'anno scorso sciami di locuste del deserto che consumano ogni giorno quasi il loro stesso peso in cibo fresco.
Ahmed Yarow Ahmed ha 50 anni, è padre di nove figli, è fuggito dalla città di Rabdhure nella regione sudoccidentale di Bakool quando il suo bestiame è stato sterminato dalla siccità nel 2017. È uno dei 2,9 milioni di sfollati della Somalia, da allora vive in un campo per sfollati nella città di Baidoa. Racconta: "Avevo 70 capre e una fattoria e ho fatto del mio meglio per sfruttarle al massimo". "Ma sono stato costretto ad andarmene quando non è piovuto per tre anni consecutivi e tutto il mio bestiame è morto.
"Ci sono persone che hanno perso la vita. Ma la vita nei campi non è migliore, perché non c'è abbastanza cibo. Ci sono persone vulnerabili, tra cui anziani, donne e bambini non accompagnati che non hanno niente da mangiare. Condividiamo tra di noi il poco che abbiamo. Non c'è speranza di tornare presto nelle nostre case perché il nostro stile di vita è completamente cambiato e non si può fare affidamento sulle piogge. Oramai ci siamo abituati alla vita di città. Voglio che i miei figli ricevano un'istruzione e conducano una vita migliore".
Le Nazioni Unite hanno detto nel mese di giugno che la Somalia sta affrontando la peggiore mancanza di aiuti finanziari mai avuti in sei anni. In un appello urgente lanciato nel mese di luglio, la Federazione Internazionale della Croce Rossa ha dichiarato che ha bisogno di 7 milioni di sterline per sostenere la Croce Rossa Somala e dare così assistenza umanitaria alla popolazione del Somaliland e del Puntland nei prossimi 18 mesi. Ha anche avvertito che il Covid rischia di provocare un peggioramento per la nutrizione dei gruppi vulnerabili, tra questi le famiglie povere nelle aree urbane e gli sfollati che vivono in condizioni di affollamento non igieniche.
La pandemia ha stravolto l'economia somala, che si stava lentamente riprendendo da anni di conflitto prima che il Covid-19 si presentasse. Secondo la Banca Mondiale, l'economia si è contratta dell'1,5% nel 2020. Il settore dell'allevamento, che costituisce almeno il 40% del Pil del Paese, è stato particolarmente colpito. "Da quando è iniziata la pandemia ho perso quasi il 50% dei miei guadagni", dice Mohamed Awad della città portuale di Bosaso, dove si esporta la maggior parte del bestiame. "L'Arabia Saudita, che è il principale Paese verso cui esportiamo, ha cancellato le importazioni di bestiame, e anche altri Paesi del Medio Oriente hanno chiuso le frontiere a causa della malattia". "Quanto sta accadendo non riguarda, quindi, solo me: significa che molte persone hanno perso i mezzi di sostentamento, compresi i pastori, gli intermediari, i contadini... anche le entrate del governo sono state colpite".
Non è una novità per Fadumo Ali Mohamed. "Mangiamo solo una volta al giorno; l'acqua è in vendita qui e non possiamo permetterci di pagarla", racconta. "Il padre dei miei figli è malato e non c'è accesso alle medicine, quindi la vita è estremamente difficile".
Non è la prima volta che Mohamed è stata costretta ad abbandonare la casa di Balad Amin nel Basso Scebeli. Quattro anni fa era a Mogadiscio, quando il Paese era sull'orlo della carestia. Racconta che "nel 2017 erano dovuti partire perché non pioveva, non c'era cibo, niente. Tutti correvano a Mogadiscio e io ho seguito la gente per salvare i miei figli". Ma l'anno scorso è stata sfrattata con la forza dal suo rifugio in un campo di sfollati nel quartiere Kahda della capitale.
"I proprietari del terreno ci hanno sfrattato dal nostro insediamento. Non avevamo nessun altro posto dove andare, così abbiamo deciso di tornare nel nostro villaggio, solo per essere costretti nuovamente dai combattimenti ad abbandonarlo e a ritornare" nella capitale. "Ora mi sono arresa. Preferisco lottare per sopravvivere qui che continuare a scappare".
Per leggere l'articolo originale: ‘Nothing to eat’: Somalia hit by triple threat of climate crisis, Covid and conflict