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“Quella fabbrica di vestiti non era diversa dal campo di internamento. C’erano la polizia, le telecamere, non si poteva andare da nessuna parte”. Gulzira Auelkhan è una donna kazaka detenuta, in passato, in un campo di internamento e poi sottoposta a lavori forzati in una fabbrica. La sua storia - denunciata nei mesi scorsi e ripresa il 23 luglio da una coalizione per i diritti umani - non sembra diversa da quella di molti altri uiguri, kazaki e musulmani turchi. Minoranze etniche e religiose che, stando alla denuncia della coalizione di Ong e sindacati, il governo cinese ha radunato “in campi di detenzione e di lavoro forzato” nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, nel nordovest della Cina.
La coalizione raccoglie più di 190 organizzazioni, tra cui la confederazione sindacale internazionale (Ituc-Csi), l’Afl-Cio, la campagna Abiti puliti e il Maquila solidarity network, e accusa l’intero sistema del tessile e abbigliamento mondiale di complicità nello sfruttamento degli uiguri. Gli attivisti parlano apertamente della “più grande sepoltura di una minoranza etnica e religiosa dalla seconda guerra mondiale. Le atrocità nella regione uigura - affermano -, tra cui la tortura, la separazione forzata delle famiglie e la sterilizzazione obbligatoria delle donne uigure, sono ampiamente riconosciute come crimini contro l'umanità”.
Secondo la coalizione, “un elemento centrale della strategia del governo per dominare il popolo uiguro è un vasto sistema di lavoro forzato che colpisce le fabbriche in tutta la regione e in Cina, sia all'interno che all'esterno dei campi”.
Stando ai dati diffusi dalla campagna, l’80 per cento circa del cotone cinese è raccolto nella regione uigura. Il 20 per cento del cotone mondiale viene dalla regione uigura. Un capo di abbigliamento su cinque, in tutto il mondo, è dunque “macchiato dal colore del lavoro forzato”.
Il New York Times fornisce pezze d’appoggio alla denuncia ricordando che di recente diverse indagini dello stesso NYT e del Wall Street Journal avrebbero “trovato prove che collegano la detenzione forzata di uiguri di lingua turca in Cina alle catene di fornitura di molti dei più noti rivenditori di moda del mondo, tra cui Adidas, Lacoste, H&M, Abercrombie & Fitch, Ralph Lauren e la PVH Corporation, che possiede marchi come Tommy Hilfiger e Calvin Klein”. Ma l’elenco fornito dalla coalizione è molto più lungo. Alcune marche, come Uniqlo, hanno negato qualsiasi coinvolgimento nella regione; altre si sono impegnate a verificare le rispettive catene di fornitura e a prendere provvedimenti, riferisce il Guardian.
“L'unico modo in cui i marchi possono assicurarsi di non trarre profitto dallo sfruttamento è uscire dalla regione e porre fine alle relazioni con i fornitori che sostengono il sistema di governo cinese”, dichiara Jasmine O'Connor, responsabile di Anti-Slavery International. Per Omer Kanat, dell’Uyghur Human Rights Project, “i marchi globali devono chiedersi quanto si sentono a proprio agio nel contribuire a una politica di genocidio contro il popolo uiguro”. "I lavoratori forzati nella regione uigura - aggiunge Scott Nova del Worker Rights Consortium - si trovano ad affrontare violente ritorsioni se dicono la verità sulla loro situazione. Questo rende impossibile la due diligence attraverso le ispezioni del lavoro e garantisce virtualmente che qualsiasi marchio proveniente dalla regione uigura utilizzi il lavoro forzato”.
La coalizione chiede ai marchi chiamati in causa di “tagliare tutti i legami con i fornitori coinvolti nel lavoro forzato e di porre fine a tutti gli approvvigionamenti dalla regione uigura, dal cotone ai capi finiti, entro dodici mesi”.