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“La rivoluzione non è un pranzo di gala”. Scrivere di Stati Uniti iniziando con una citazione di Mao Tse Tung potrebbe sembrare un atto blasfemo. Eppure non lo è in questo 2020 in cui 50 milioni di dollari di spot pubblicitari non sono bastati a Michael Bloomberg per guadagnarsi un posto al sole nella corsa per le primarie democratiche. Non è stato Super Michael, deriso un po' ovunque per aver conquistato solo le Isole Samoa, capitale Pago Pago. Ma non è stato neanche Super Joe pure se questa mattina leggerete ovunque il contrario, perché all'ex vice presidente Biden è andata la maggioranza dei 14 Stati. Nel Super Martedì in cui si assegnavano i 1357 delegati, dal Texas alla Virginia passando per la California e la North Carolina, è stato comunque e nonostante tutto Super Bernie.
In particolare, nonostante l’establishment del partito. Alla vigilia della tornata più impegnativa, due candidati – il giovane sindaco dell’Indiana Pete Buttigieg e la senatrice del Maine Amy Klobuchar - hanno abbandonato la corsa schierandosi formalmente dalla parte di Biden, due mosse determinanti nell'evoluzione del voto. Moderazione contro rivoluzione. Questo è il dilemma che i democratici si trovano davanti. Mentre il loro ultimo inquilino della Casa Bianca resta a guardare (“Per ora – dice Barack Obama – niente endorsement, non aiuterebbe”) e i neri d’America continuano a sentirsi rassicurati solo dal suo ex braccio destro Joe Biden, la rivoluzione questa volta corre sulle gambe di un 78enne bianco, lo “zio Bernie”, che ha costruito un programma e una campagna che parla a giovani, precari, senzatetto, immigrati, latinos, rivendica diritti, lavoro di qualità, salario minimo, sanità e istruzione accessibili a tutti, si batte per la tutela dell’ambiente e contro il cambiamento climatico, lotta ferocemente per difendere un principio di giustizia sociale: che il mondo non lo governi l’1% dei ricchi a discapito del restante 99%.
Così il fatto che Sanders si sia guadagnato il consenso nello Stato più popoloso - la California, che il Texas non sia stato assegnato a tavolino, che ancora il "sistema" non abbia messo fuori gioco "il socialista" , che lui resista all'idea che ha attanagliato e sconfitto la Sinistra negli ultimi decenni, soprattutto in Europa, ovvero che le elezioni si vincono parlando la lingua della Destra, ne fanno comunque un vincitore. “The same old same old” – per dirla con Bernie – preferisce ancora tradizione e moderazione. Vero. La "rivoluzione" ha conquistato molti meno delegati del previsto. Vero. Joe Biden è stato protagonista di una rimonta che, al momento, lo vede in testa. Vero. E vero pure che l'unica candidata donna con un programma simile a quello radicale di Sanders, l'unica che sulla carta avrebbe tutte le chance per concorrere alla presidenza, la senatrice Elizabeth Warren, non riesce né a vincere né a convincere. Una donna progressista alla Casa Bianca non si vedrà in questa stagione e neanche nelle prossime. Allora perché scrivere Super Bernie oggi? Per guardare il bicchiere mezzo pieno e non bere da quello mezzo vuoto? Forse. Ma non proprio.
In queste ore Donald Trump gongola e twitta: "Elizabeth 'Pocahontas', oltre a Mini Mike Bloomberg, è la più grande perdente della notte". Gongola e chiama Biden "Sleepy Joe". Gongola perché sa per esperienza che la moderazione degli avversari è un assist perfetto per uno come lui. Nel frattempo Bernie Sanders continua a rivendicare l'autodeterminazione e la libertà delle donne di gestire il proprio corpo, la gratuità dell'istruzione universitaria, il diritto alla salute e a denunciare i tagli alla sanità, le disparità tra classe operaia e grandi manager a livello salariale e previdenziale... Solo per limitarci alle dichiarazioni più recenti. La rivoluzione ha un lungo programma. Non si ferma. Non può. La strada non è impervia ma non esistono scorciatoie. La rivoluzione non si compra (lezione per Bloomberg) e, di certo, non è mai moderata (lezione per tutti). Perciò anche oggi, anzi oggi più di ieri, "Go, Super Bernie, go"!