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Quattrocento giorni di bombardamenti e di raid dell’esercito israeliano, 45mila morti, in gran parte civili, una terra devastata, città ridotte in macerie. Questa è la Striscia di Gaza oggi, una ferita aperta e sanguinante per la specie umana. Eppure nella martoriata Palestina c’è chi non cede alla disperazione e cerca in ogni modo di dare una mano. Come Sharif Hamad, che da quella terra se ne era andato ma sa che le sue radici, i suoi affetti, i suoi ricordi di bambino e adolescente sono lì, incancellabili.
Mediatore culturale, Sharif Hamad è un attivista nella campagna di raccolta fondi ‘Acqua per Gaza’, aiutata concretamente dalla Flai Cgil e avviata dall’ong ‘Un ponte Per’, con l’obiettivo di distribuire acqua potabile, cibo e kit igienici alle famiglie di Gaza, anche grazie alla collaborazione sul campo della Uawc, Unione dei comitati di lavoro agricolo palestinese. Una rete impegnata a sostenere contadini, lavoratori agricoli e pescatori palestinesi, per la protezione delle terre e per la distribuzione dei semi.
Semi che diventeranno alberi, piante da frutto, simboli della vita che va avanti nonostante tutto. Possono ucciderci, ma non posso toglierci la dignità. Io ho lavorato quasi dieci anni con Uawc. I palestinesi sono un popolo resistente, la storia ci ha messo in un contesto particolarmente difficile, sempre sotto la morsa del colonialismo. La resilienza fa parte della nostra identità.
Raccontaci la tua storia.
Sono nato a Beit Hanun, la prima città che incontri quando entri nella Striscia di Gaza da nord, a pochi chilometri dalla città israeliana di Sderot. Una terra di confine. Ricordo benissimo la mia casa, in mezzo ad alberi di agrumi, limoni, aranci. La scuola era a circa due chilometri, quando andavo e tornavo trovavo sempre soldati israeliani che se la prendevano con i giovani palestinesi. Era il periodo della prima intifada, alla fine degli anni ottanta, una ribellione civile, al massimo lanciando sassi e sventolando la nostra bandiera. Si rischiava, uno schiaffo e un calcio li ho presi anche io. Loro lanciavano un messaggio chiaro: non devi resistere, non devi nemmeno pensarci, perché altrimenti ci saranno conseguenze. Insomma non volevano che un popolo continuasse a sperare. Ma il costo dell’arrendersi è mille volte più grande di quello di resistere.
Tanti credono che tutto sia cominciato il 7 ottobre dello scorso anno.
Non è vero, io manco da Gaza da qualche anno. Ma c’ero nel 2008, nel 2012, nel 2014, ho perso un fratello, i miei figli sono stati feriti, la casa colpita da un razzo. Ora però la situazione è infinitamente più grave, Beit Hanun è un piccolo paese, e non è rimasto in piedi un solo edificio. Anche prima ne buttavano giù tanti, a centinaia, ma oggi li hanno rasi al suolo tutti. Un attacco continuo. Se nel 2014 le famiglie cancellate dall’anagrafe erano state 30, quest’anno sono 1.400.
La società civile israeliana non protesta di fronte a questo stato di cose?
Netanyahu ha cancellato ogni voce contraria, nel suo governo sono rimaste solo le forze più radicali. Sapevamo già chi fosse il primo ministro israeliano, ora la maschera è caduta del tutto, di fronte al mondo intero.
Come si riesce a sopravvivere nella Striscia di Gaza?
La mancanza di acqua e di cibo è senza precedenti. Distruzioni c’erano sempre state, palestinesi assassinati c’erano sempre stati. Ma senza medicine, con gli ospedali bombardati, senza poter bere e mangiare a sufficienza è impossibile vivere. Se non si muore sotto le bombe, si muore di malattie, di fame e di sete, l’acqua non è più potabile. Gaza è sotto assedio dal 2006, di acqua ne avevamo sempre meno ma riuscivamo ad arrangiarci, rendendola potabile. Ora però hanno distrutto quasi tutti i pozzi, a centinaia. Vogliono distruggere qualsiasi cosa renda possibile la vita dei palestinesi.
E’ per questo che stai lavorando con Un Ponte Per?
Stiamo provando a dare una mano. Io la vedo così, ogni giorno devi tenere in vita l’anima, sperando che domani ci sia un sole diverso. Qualcosa che fermi questo genocidio, la speranza di un cessate il fuoco, che il mondo si svegli. In questi 400 giorni è successo di tutto, compresi i camion di aiuti alimentari bloccati alla frontiera dall’esercito israeliano. Una realtà inumana. Penso sia un aspetto terribile di una lotta di classe mondiale. Perché il popolo palestinese è un popolo di lavoratori, di contadini, di pescatori. Una classe operaia, che cerca di battersi contro il colonialismo. Anche nelle piazze europee e americane si manifesta a sostegno del popolo palestinese, ma i loro governanti fanno poco o nulla di concreto per fermare questa distruzione di massa. Non è una guerra fra due eserciti, c’è un esercito che attacca un popolo. Secondo me c’entra il fatto che tanti governi sostengono i produttori di armamenti. Fanno affari. A Gaza queste armi le sperimentano, come se noi fossimo cavie.
I tuoi parenti sono tutti là, immagino che ti svegli ogni giorno con il cuore in gola.
Ho una gran paura di finire per restare l’unico sopravvissuto della mia famiglia. Mia mamma, mio babbo, i miei fratelli, i miei nipoti… Se il mondo non si ribella a questo stato di cose, finirà così.
Tutto quell’orrore a cui stiamo assistendo è anche per motivi religiosi?
Non credo. Io sono nato musulmano, ma questo non fa parte della mia identità, io sono palestinese, io sono arabo. Non mi presenterei mai come Sharif ‘musulmano’.
Un altro aspetto incredibile di questa immane tragedia è che il tuo paese ‘tecnicamente’ non esiste. Siete un popolo senza terra, senza una nazione.
Io vivo in Italia, pago le tasse, da quando sono arrivato, sette anni fa, lavoro come un matto. Mi sono laureato, sono nell’elenco dei mediatori transculturali. Però quando vado in Comune mi chiedono: ‘Scusa, ma che nazionalità hai?’. Al giorno d’oggi si fa tutto tramite piattaforme, e nelle piattaforme la nazionalità palestinese non c’è. Così ogni volta che mi trovo faccia a faccia con l’impiegato comunale devo confermare la mia esistenza, perché il palestinese è un fantasma. Mi trovo in questa situazione di continuo, perché ho quattro figli. Psicologicamente è una tortura.
Tutto il pianeta sa che in quel martoriato territorio accadono da decine di anni cose indicibili.
Lo dicono le Nazioni Unite, non lo dice Sharif. E allora ho accettato ben volentieri di far parte di un’iniziativa così importante come quella che abbiamo avviato con la Flai Cgil e Un Ponte Per. Mi sono trovato davanti a principi che condivido, tradotti in azioni concrete. Io so quanto il popolo palestinese si senta solo. Volevo fare un video e mandarlo a ogni uomo, a ogni donna, a ogni ragazzo nella Striscia, per dir loro che invece non sono soli. E che abbiamo aperto a un’alleanza fra lavoratori della terra. Nessuno deve essere lasciato solo, questo è il senso più vero del sindacato. Provo a fare qualcosa. Perché vogliamo un mondo dove si possa vivere tutti in pace. Il mondo che vediamo oggi non ci appartiene.