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Il rapporto tra la pandemia che in questi mesi ha stravolto le nostre vite e attanaglia il pianeta e l’aggressività delle attività umane nei confronti della Terra è legato a doppio filo. Ci sono studi che dimostrano che gli effetti dei cambiamenti climatici, la scarsa qualità dell’aria delle aree maggiormente industrializzate e il continuo processo di deforestazione e urbanizzazione sono concause vettoriali delle zoonosi, cioè di quelle malattie che compiono il salto di specie, che passano dagli animali all’uomo. È ironico che queste malattie virali riescano da anni, esattamente come il Covid-19, a convivere in un equilibrio parassitario col proprio ospite storico e risultino invece letali per altre specie con cui entrano in contatto come quella umana, esattamente come nell’evoluzione del rapporto distruttivo che lega la vita dell’uomo all’esistenza della Terra.
La lezione da questo punto di vista è semplice, per prenderci cura di noi stessi dobbiamo prenderci cura del pianeta che ci ospita e nella logica latina del “mens sana in corpore sano” l’intelligenza dell’uomo non ha alcun significato e funzione se slegata dalla salute del pianeta che la ospita.
L’equilibrio tra terra e uomo è parte integrante della cultura contadina storica e i tre miliardi di agricoltori, di braccianti, di lavoratori rurali che esistono nel Pianeta sono consapevoli che se si spezzano gli equilibri che regolano il legame tra gli uomini e la terra, le conseguenze possono essere devastanti; così come hanno chiaro i valori universali dei limiti della terra e della biodiversità, l’importanza cioè di produrre ciò di cui si ha bisogno per sopravvivere rispettando i ritmi e i cicli della natura e le specificità dell’ambiente.
Ma la paura odierna, anche nostra, che sempre più emerge nel dibattito pubblico sul post pandemia è che l’idea di “tornare come prima” possa prevalere sul “vivere un domani migliore”, nel più gattopardesco dei processi di innovazione e cambiamento, cambiare tutto per non cambiare niente.
Per questo è fondamentale aspirare ad un futuro sostenibile, che rimetta al centro il rapporto tra uomo e ambiente circostante, tra attività umana e risorse disponibili, tra qualità e dignità della vita e del lavoro, senza dimenticarci di nessuno e senza compiere l’errore fatale di tenere come unico riferimento dello sviluppo della specie il profitto, il reddito e il consumo.
Dobbiamo puntare a modificare il paradigma dello sviluppo delle nostre comunità, puntare ad avere più verde, città e territori più vivi e sani e immaginarci come soggetti che non distruggono l’organismo che li ospita ma che anzi lo prendono in cura e lo sostengono.
Il profitto immediato per l’arricchimento individuale in un ambiente a rischio e pieno di insidie per la nostra salute e la nostra vita è una pessima divinazione rispetto all'affermazione di un domani in salute e equilibrio.
Per fare questo serve una rivoluzione culturale, pensare che vivere l’oggi e farlo esclusivamente pensando “al qui ed ora” sia insignificante e privo di valore senza la visione di un futuro sostenibile.
Bisogna dunque invertire l’andamento del dibattito odierno per fare un primo passo e svincolarsi dall’ottica per cui il meccanismo produttivo abbia come unica logica il soddisfacimento del consumatore e della commessa di un dato prodotto, è una responsabilità sindacale che non possiamo eludere. Viviamo ogni giorno una contrapposizione tra sfruttamento del lavoratore e della propria salute e necessità di consumo, che in questo periodo di isolamento, in cui paradossalmente l’economia crolla perché si acquista e produce solo lo stretto necessario, diventa ancora più insopportabile.
Per superare questo modello dovremmo dare valore e perseguire in tutti i luoghi di lavoro, anche in quelli invisibili, diffusi, spesso difficili da raggiungere con i nostri modelli di rappresentanza tradizionali, i principi del Protocollo sicurezza del 14 marzo, in cui si rimette al centro il lavoratore nell’ottica della tutela della salute e dunque del benessere collettivo a discapito dei singoli profitti, superando la contrapposizione tra benessere individuale e collettivo. Mai come in quest’emergenza sanitaria la salute dei lavoratori rappresenta l’equilibrio tra capitale e lavoro. Così come dobbiamo proseguire nel contrastare, anche sul piano culturale, il fastidioso dibattito di questi giorni, il rinnovato approccio “padronale” totalmente disinteressato al tema dei diritti fondamentali con cui si denuncia l’insufficienza numerica di braccianti e operai per garantire alcune filiere agroindustriali, attento esclusivamente al produttivismo esasperato.
Si parla di uomini, di cibo, di vita e di futuro e senza rispetto per questi termini è impensabile trovare risposte adeguate, non siamo disposti a volgarizzare ulteriormente il dibattito sui diritti e sulla salute e non ne saremo corresponsabili.
Ridurre la discussione su questo tema all’individuazione di un numero congruo di “braccia” per lo svolgimento della raccolta e lavorazione dei prodotti agricoli stagionali è una barbarie ereditata dalla logica del controllo dei flussi migratori che niente hanno a che vedere con l’interesse collettivo di tutelare le produzioni agricole e i diritti di chi quelle filiere le sostiene, se non quello di chi quei lavoratori e quegli individui li sfrutta. I tentativi maldestri di proporre nuovamente in questa fase ulteriori deregolamentazioni contrattuali, come i voucher, per tutelare la produttività e il massimo guadagno sul costo del lavoro, ci spingono a non arrenderci a battaglie di retroguardia: parlare dell’oggi, senza occuparci del nostro domani e senza mettere al centro la necessità di dare risposte alle tante disuguaglianze presenti nel nostro Paese senza un obbiettivo chiaro, non ci interessa.
Oggi il nostro obbiettivo prioritario è portare a casa la regolarizzazione dei migranti che vivono in condizioni disumane nei ghetti e negli insediamenti rurali informali e per questo da oltre un mese come Flai abbiamo lanciato una battaglia che concluderemo solo quando il provvedimento sarà attuato.
E contestualmente vogliamo rilanciare la discussione ad un livello più alto, ragionare di un nuovo sistema produttivo che nel tenere conto delle esigenze delle stagionalità e delle richieste di consumo sia rispondente a un nuovo modello di sviluppo che metta al centro l’uomo, i suoi diritti e le sue capacità.
Qui sta la grande la differenza tra sfruttare persone e ambiente e creare rapporti sostenibili.
Qui sta la differenza tra un passato fallimentare che mitizza il profitto e un’ipotesi di benessere diffuso, dove si va favorita la nascita di nuova occupazione nella cura dei prodotti, del territorio, delle persone e del rispetto, unica strada per far convivere e coesistere meccanismi millenari innovandoli verso il futuro.
In questi giorni in cui si celebra la 50ima Giornata Mondiale della Terra e a pochi giorni da un’altra ricorrenza fondamentale per la nostra storia, il 25 aprile, ci pare giusto interrogarci sul percorso migliore da intraprendere per liberare noi stessi e le generazioni future da un sistema economico e sociale che oltre a isolarci fisicamente e socialmente mette in pericolo vite umane.
E dobbiamo farlo ora, partendo da noi stessi e dai singoli, sfruttando le possibilità e i dubbi scatenati dalla krisis greca generata dalla pandemia, sia sull’emergenza con cui dobbiamo fare i conti oggi che sulla prospettiva del domani, sfruttando l’opportunità della crisi per leggere il caos interiore di noi stessi e di una società compromessa, per dare nomi e categorie a fenomeni intimi e collettivi ancora troppo poco esplorati.
E dobbiamo farlo con la forza di cui è capace una comunità come la nostra, la Cgil e con i saperi peculiari della nostra categoria, la Flai.
Tina Balì e Andrea Coinu, dipartimento ambiente e lavoro Flai Cgil nazionale