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Le notizie che ci hanno sconvolto all’alba di sabato 7 ottobre ci hanno fatto nuovamente sprofondare nel dramma della guerra che affligge la Terra Santa di Palestina da quasi un secolo. Non avremmo più voluto assistere all’ennesima operazione militare, da nessuna delle parti che si contende quel prezioso fazzoletto di terra. Distratti dalle tante guerre in corso che circondano l’Europa, ma soprattutto dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, abbiamo abbassato i riflettori su quanto stava maturando in quella terra tanto martoriata.
Il congelamento del processo di pace non ha fermato la riproduzione e la diffusione dell’odio che genera violenza e violazione dei diritti umani e delle libertà. Al contrario, com’è noto, senza pace e senza giustizia, crescono e si prendono la scena le frange estreme e violente di ogni società.
Ma quest’assenza, questo vuoto di pace e di giustizia, non deve giustificare la violenza e la guerra. Per questo, pur confermando il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e il nostro impegno per il riconoscimento dello stato di Palestina, la condanna all’operazione militare di Hamas è netta, senza se e senza ma. Lo abbiamo sempre detto che quella non è la strada che porta al riconoscimento dei diritti dei palestinesi, anzi quella strada non fa altro che demolire diritti e distrugge la strada della pace.
Nel Parents circle family forum, l’associazione fondata e composta da famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso i loro cari nel conflitto, si usa dire “il nostro nemico non è il palestinese o l’israeliano, ma chi è contro la pace e la convivenza dei due popoli”. Loro, familiari di chi ha perso la vita in guerra o in un attentato terroristico, hanno maturato la consapevolezza e la determinazione che la strada non è quella della chiusura nel nazionalismo etnico o nella vendetta, ma è nella giustizia riparativa, nella ricerca delle ragioni dell’altro e nella costruzione comune della sicurezza condivisa.
Un percorso a tappe, pieno di sfide e di ostacoli, non per ultimo quello di essere considerato un traditore o un rinnegato dalla propria comunità, ma che apre nuovi orizzonti, ripulisce il corpo e la mente dall’odio e dalla vendetta, consegna una ragione di vita e di speranza.
Tutto il contrario dei governi israeliani che, dopo la morte del presidente Yitzhak Rabin, hanno ripreso il sogno del “Grande Israele”, che significa non altro che uno stato ebraico sul 100% della terra di Palestina, giustificando questo progetto con le debolezze, le contraddizioni e le difficoltà dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), amplificate dalla gestione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Una scelta politica che ha significato la diffusione e la crescita dei gruppi jihadisti, di Hamas, delle varie brigate e milizie armate, ma anche della militarizzazione della società israeliana e della riduzione, se non repressione, degli spazi di democrazia e di libertà nella società israeliana, com’è l’ultima legge di riforma della giustizia che consente al governo di operare in deroga alla Corte Suprema.
Il risultato di un quarto di secolo di questa politica ha ridotto il territorio del futuro stato palestinese, corrispondente al 22% circa dell’intero territorio della Palestina originale, a una groviera, piena di colonie ebraiche, vie di comunicazione che ne impediscono la continuità, attraversato dal Muro di separazione che di fatto espropria ulteriori chilometri quadrati di territorio palestinese, l’isolamento di Gaza, con circa due milioni di palestinesi, di cui la stragrande maggioranza sono profughi provenienti da città e villaggi oggi parte dello stato d’Israele, abbandonati nelle mani di Hamas, creatura diabolica.
Un contesto territoriale, sociale e politico che ha trasformato la società palestinese, da laica, istruita, cosmopolita, a società facile preda dei messaggi islamisti, con un’altissima percentuale di abbandono scolastico e matrimoni precoci, isolata, frantumata al proprio interno, senza più aspirazioni e speranze di futuro.
Ma non se la passa meglio la società israeliana, da anni in preda di una strutturale instabilità politica e di un progressivo spostamento a destra e con posizioni sempre più razziste e intolleranti, che mostra i segni di una democrazia in crisi, per certi versi di autodistruzione, nella frammentazione del Labour party, oggi ai minimi storici con soli quattro parlamentari, nella scomparsa di un’ala progressista e democratica, e nella necessità del Likud che, pur rimanendo il primo partito nella Knesset, per governare è obbligato fare le alleanze con partiti religiosi e di estera destra.
Ovvio che questo stato di cose, come la strategia dell’occupazione e l’annessione de facto del territorio palestinese, il soggiogare la popolazione palestinese togliendole ogni prospettiva di futuro, e dall’altro lato, la popolazione israeliana in perenne stato d’allarme per proteggere la sicurezza nazionale, non può che moltiplicare i germi dell’ingiustizia e della violenza.
Ne siamo stati testimoni diretti anche noi. Quando andammo in delegazione nell’ospedale di Tel Aviv, accompagnati dal presidente del sindacato israeliano Histadrut, per portare la nostra solidarietà ai feriti, civili vittime della stagione degli attentati sugli autobus e nelle stazioni. O quando un giovane di 24 anni, Angelo Frammartino, mentre partecipava a un campo estivo per svolgere attività culturali e sportive con i bambini palestinesi nel campo profughi di Shufat e di Gerusalemme, fu ucciso da un suo coetaneo, palestinese, proveniente da un villaggio dei territori occupati, anch’esso, disperato e inconsapevolmente vittima dell’odio generato da questo conflitto.
O le ripetute visite realizzate con i sindacati palestinesi del Pgftu nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O gli incontri con i lavoratori palestinesi costretti a non poter rinunciare al proprio lavoro nei parchi industriali israeliani sorti illegalmente nel territorio palestinese.
Il nostro impegno per la pace è anche l’impegno per affermare i diritti fondamentali del lavoro, perché vi è una diretta conseguenza tra l’assenza di pace e la violazione dei diritti umani e del lavoro. Per un lavoratore palestinese l’accesso ai diritti è fortemente limitato: se ha un lavoro in Israele deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, occorre subire quotidianamente le vessazioni dei check point, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versare i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. Se, invece, il lavoro è nella Cisgiordania, vi è più libertà, ma il salario è un terzo e solo ora si sta organizzando il sistema sociale.
Come uscirne? Come fermare violenza, sfruttamento, odio e il ricorso sistematico alle armi? Le Nazioni Unite, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, operarono a favore della nascita di uno stato per il popolo ebraico e riconobbero lo stato d’Israele nella terra di Palestina con la chiara volontà di dividere quella terra con i palestinesi, un’idea che si plasmò solamente 45 anni dopo, dopo guerre e varie stagioni di attentati, con gli Accordi di Oslo (1993).
Ancora oggi, quella è l’unica soluzione accettata dalle due parti, supportata dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e che conta il sostegno nella comunità internazionale. Occorre quindi ripartire da lì. Dare completezza a quell’impegno con il pieno riconoscimento dello stato di Palestina, compreso nei confini precedenti alla guerra del 1967, con Gerusalemme capitale condivisa dei due stati e con la continuità territoriale con la Striscia di Gaza.
Spetta, quindi, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riprendere in mano la questione palestinese, attivando tutte le energie e risorse della diplomazia e del diritto internazionale per fermare le armi e la violenza, impegnandosi a convocare d’urgenza una conferenza internazionale di pace, il cui obiettivo dovrà essere il riconoscimento dello stato palestinese e a impegnare tutti quanti alla ricostruzione della pace, della convivenza e della sicurezza comune.
Questo passaggio, oramai irrinunciabile per fermare quest’ennesima guerra e il ripetersi di ulteriori scontri armati, dovrà essere accompagnato da investimenti e cooperazione tra stati e tra movimenti, sindacati, ong, chiese di ogni paese. E per noi, istituzioni e società civile, per la nostra storia e per la nostra posizione geografica, l’impegno e il ruolo dovrà essere una priorità della nostra politica estera, della nostra cooperazione.
Sergio Bassoli, Area internazionale Cgil