Ci sono i rifugiati politici, quelli perseguitati per le loro idee religiose o culturali, per la loro identità sessuale o perché in fuga da una guerra. Ma non esistono, almeno sulla carta dei trattati internazionali, i rifugiati climatici. Persone che scappano da eventi meteorologici estremi, da disastri naturali improvvisi o graduali, dovuti al cambiamento climatico, a siccità prolungate, desertificazione, piogge abbondanti, degrado ambientale, innalzamento del livello del mare.

In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, che si celebra il 20 giugno, dobbiamo ricordare che la Convenzione di Ginevra del 1951 non prevede la figura del rifugiato climatico perché non riconosce l'ambiente come una causa di persecuzione.

20 milioni di persone ogni anno

Eppure la crisi climatica dà origine a migrazioni su scala globale. Secondo l’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, ogni anno sono in media 20 milioni le persone obbligate a spostarsi a causa del clima. E anche se le stime variano, tutte indicano una tendenza allarmante: entro il 2050 saranno 200 milioni gli individui sfollati per via dei disastri legati al clima. Uomini e donne in fuga all’interno del loro stesso Paese o in quelli confinanti.

“A causa dell’innalzamento del mare, milioni e milioni di persone saranno costrette a spostare la residenza, nel Mediterraneo come nelle piccole isole-Stato dell’Oceania, o nell’oceano Pacifico – afferma Valerio Calzolaio, politico, ex sottosegretario al ministero dell’Ambiente, autore di numerosi saggi sul tema -. Per loro non esiste a oggi la protezione che viene garantita ai rifugiati. C’è la possibilità del riconoscimento attraverso accordi bilaterali o la via giudiziaria. A livello globale, ci sono organismi che stanno discutendo su quanto previsto in un punto dell’accordo di Parigi del 2015, ma a oggi ancora niente di concreto”.

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Politiche separate

Neppure l’Unione europea riconosce la protezione umanitaria ai migranti climatici, e anzi ha creato una netta separazione tra le politiche di gestione delle migrazioni e le iniziative del Green Deal.

“Il Nuovo Patto sulla migrazione, ispirato dal paradigma della deterrenza, menziona il cambiamento climatico tra le maggiori sfide globali, senza tuttavia adottare impegni concreti in tal senso” denuncia Action Aid, che ha realizzato una nuova ricerca per analizzare gli aspetti giuridici e normativi della mobilità umana legata ai disastri naturali, al degrado ambientale e al clima che cambia, partendo da un’indagine in Gambia, uno dei Paesi africani dove la migrazione interna e internazionale è più forte.

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Permesso di soggiorno per calamità

In Italia, nonostante le modifiche alle norme sul diritto d’asilo apportate dal 2018 in poi, la protezione temporanea, che fornisce protezione “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”, è stata affiancata proprio nel 2018 da uno strumento specifico e individuale, il permesso di soggiorno per calamità, che dà protezione a chi fugge per cause climatiche e ambientali di migrazione.

Livello minimo di protezione

Il governo Meloni elimina la possibilità di convertire in permesso di soggiorno per motivi di lavoro quello ottenuto per calamità, limita le possibilità di rinnovo, garantendo un livello minimo di protezione e non lascia spazio per una maggiore permanenza del beneficiario sul territorio nazionale, denuncia Action Aid, che chiede all’esecutivo di rafforzare e ampliare questo strumento per dare protezione ampia a chi arriva in Italia per motivazioni legate a disastri e crisi climatica.

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