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Le sindache afroamericane non sono molte, ma ad alcune di loro si devono le posizioni e le parole più chiare nei giorni iniziali della sollevazione. Hanno chiesto la riforma dei corpi di polizia, la riduzione dei loro bilanci e l’avvio automatico di indagini giudiziarie su ogni caso di violenza poliziesca; pur istituendo il coprifuoco notturno, hanno parlato ai dimostranti e valorizzato, non criminalizzato, sia la protesta, sia la variegata composizione sociale delle migliaia di persone che sono scese in strada. Sono anche state dure nei confronti dell’atteggiamento e delle parole di Trump contro i dimostranti (su tutte: “Criminali” e “Quando cominciano i saccheggi, si comincia a sparare”).
Le loro parole la dicono lunga sulla popolarità del presidente. Così il 29 maggio la sindaca di Chicago, Lori Lightfoot: “Dico subito quello che davvero voglio dire a Donald Trump. Sta in due parole. Comincia con ‘F’ e finisce con ‘U’” (“Fuck you”, vaffanculo). La sindaca di Atlanta, Keisha Lance Bottoms, ha detto di Trump che “dovrebbe solo stare zitto. Parla e rende le cose ancora peggiori”. E London Breed, di San Francisco: “Sono la sindaca di questa città, ma sono prima di tutto una donna nera… Quello che avviene in questo paese è il razzismo… Black Lives Matter è da prendere sul serio, è una cosa nata dal nostro dolore, dalle nostre lotte e dal nostro sangue…”.
Ma solo un’altra sindaca nera, con un fegato da leonessa, poteva fare quello che ha fatto Muriel Bowser a Washington: scrivere Black Lives Matter, in vernice gialla, tutte maiuscole a lettere più che cubitali – da un marciapiede all’altro – sull’asfalto di una strada della capitale. Una scritta lunga duecento metri sulla 16th street rinominata Black Lives Matter Plaza, letteralmente a un passo dalla Casa Bianca. La scritta termina al Lafayette Park, quel giardino pubblico confinante con la Casa Bianca che il 1° giugno era pieno di manifestanti, fatti “gasare” e sgomberare da Trump per attraversarlo e andare alla St. John’s Church a farsi fotografare con la Bibbia in mano.
La nuova intitolazione voluta dalla sindaca è venuta cinque giorni dopo quel fatto, mentre la sollevazione generale era ancora in corso. Non è ancora finita. Sembra incredibile, ma altri afroamericani hanno continuato a essere ammazzati dai poliziotti, sia durante le proteste per l’omicidio di George Floyd, sia dopo. “Non uno di più”, gridavano la sindaca Breed e migliaia di dimostranti davanti al municipio di San Francisco nello stesso 1° giugno di Trump in chiesa, e invece undici giorni dopo sarebbe arrivato anche Rayshard Brooks, sparato nella schiena ad Atlanta nel parcheggio di un ristorante.
Qualche cifra, per avere il quadro d’insieme. Il conteggio che il Washington Post aggiorna quotidianamente riguarda tutte le uccisioni poliziesche con armi da fuoco, per tutte le possibili ragioni. Nei 1.991 giorni tra il 2015 e oggi, 15 giugno, le persone uccise dalla polizia sono state 5.408: 2,7 individui al giorno. I poliziotti sparano con enorme facilità a tutti, in ogni parte degli Stati Uniti. Ma proprio la fisionomia delle persone a cui sparano dà l’idea di quanto le uccisioni siano governate dal prevalere dei pregiudizi razziali. I bianchi uccisi sono stati 2.471 (su 197 milioni di persone, 13 per milione); i neri, 1.295 (su 42 milioni, 31 per milione); gli ispanici, 900 (su 39 milioni, 23 per milione); altri, 219 (su 49 milioni, 4 per milione) e sconosciuti, 523. E dal 25 maggio al trascorso 12 giugno, gli ammazzati con arma da fuoco sono stati 59; tra i quaranta circa di cui è specificata l’identità, i neri sono stati 13 (più Floyd, ammazzato in altro modo, come è noto) e gli ispanici 9.
Come quella di George Floyd, anche l’uccisione di Brooks è stata documentata, in parte attraverso le riprese iniziali della stessa polizia e, per la colluttazione e sparatoria finale, grazie alle riprese delle telecamere fisse e ai telefoni degli astanti. È stata vista, e la tensione che ad Atlanta (e pressoché ovunque) si era allentata ha ripreso furia. Neppure nel 1968, quando l’assassinio di Martin Luther King provocò la rivolta degli afroamericani in 120 città grandi e piccole la sollevazione fu così violenta, grande e duratura. E soprattutto, questa è la grande novità degli anni di Trump, inclusiva: interrazziale, intergenerazionale e intersezionale. “Ciò che ho visto in queste settimane è stato straordinario”, ha scritto il 10 giugno la riflessiva, antica superstar del basket, Kareem Abdul-Jabbar. “Forse stavolta riusciremo a sviluppare la volontà politica necessaria per un vero cambiamento”.
L’eccezionalità della sollevazione delle settimane “post-Floyd” sta nel confluire di antirazzismo radicale finalmente condiviso (non più solo di Black Lives Matter), antagonismi politici di matrice diversa, generale protesta per la situazione economico-sociale resa drammatica da Covid-19 e recessione. E l’anti-trumpismo è stato unificante. Da ora in avanti l’agenda del cambiamento non può che essere ambiziosa. Il primo passo simbolico sarà l’allontanamento di Donald Trump dalla Casa Bianca.
Ma l’urgenza più sentita è quella di cambiare l’economia e la società. Sarà un lavoro di lunga lena, dopo la devastazione che gli effetti combinati di pandemia e recessione hanno avuto sulla comunità afroamericana e ispanica. Le ricadute peggiori si sono avute nei quartieri più poveri delle città e tra quel 40 per cento di occupati nei lavori poveri dei trasporti e della distribuzione delle merci, della ristorazione, di edilizia e manifatture, della sanità.
Le decine di milioni di licenziamenti, sospensioni e occupazioni a tempo parziale dei mesi scorsi hanno fatto crollare di colpo i redditi di afroamericani e ispanici, le componenti sociali più “legate” ai lavori poveri. Ma sono l’occupazione generale e l’intera massa salariale di tutti i lavoratori che si sono ridotte; e saranno milioni, ha detto il capo della Federal Reserve, “i lavoratori che non torneranno al loro lavoro precedente”.
Sarà dura per tutti. Anche per questo, guardando avanti dalla solidarietà attuale, si potrà forse contare su una generale ripresa di conflittualità del lavoro. Le stesse organizzazioni sindacali, passata la fase della sofferenza, potrebbero riprendere parte della forza perduta. Ricominceranno le lotte di lavoratrici nere e ispaniche degli anni precedenti per la sindacalizzazione e le “fights for 15” (per alzare la retribuzione a 15 dollari orari e proteggere paghe e posti di lavoro nei fast food), che avevano già ricevuto la solidarietà trasversale di molte città.
Nelle scorse settimane, hanno ricevuto un’estesa solidarietà le proteste di lavoratrici e lavoratori della sanità, in maggioranza neri e ispanici, assunti e poi tagliati al calare dei contagi. Sono entrati in sciopero anche i fattorini delle consegne della spesa a domicilio, in maggioranza giovani bianchi, licenziati con le riaperture dopo essere stati assunti a decine di migliaia durante il lockdown. I lavoratori delle poste, sotto attacco come “inutili”, sono in agitazione da settimane. Il sindacato dei portuali ha già proclamato uno sciopero generale nei porti di tutta la costa occidentale per il 19 giugno, in solidarietà con la proteste per George Floyd e per “alzare la voce del lavoro e alzare la voce della gente nera”.
Perfino il Financial Times è arrivato a scrivere – ad avvertire i suoi lettori – che la lotta di classe non può che affiancarsi alla lotta per l’eguaglianza razziale e che “razza e classe sono inesorabilmente legate negli Stati Uniti”. Lo sapevano anche prima. Ma ora hanno visto che uomini e donne in carne e ossa, neri e ispanici e bianchi, possono in scendere in piazza insieme e gridare tutti insieme Black Lives Matter.