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C’è un momento in cui il silenzio smette di essere prudenza e diventa complicità. Un punto oltre il quale l’equilibrismo politico, il linguaggio ovattato della diplomazia, la copertura selettiva dei media si trasformano in un alibi vergognoso. Quel momento è adesso, e il teatro è Gaza. Un luogo in cui la carneficina è quotidiana, sistematica, visibile. Eppure ignorata.
Ogni giorno, sotto gli occhi del mondo intero, muoiono bambini, donne, civili intrappolati in un’area ridotta in macerie. Non è un “effetto collaterale”. È la realtà nuda e cruda di un assedio che non distingue, che punisce indiscriminatamente. E tuttavia, cosa leggiamo sulle prime pagine? “Tensione”, “conflitto”, “reazione”, “diritto alla difesa”. Una neolingua che serve a smussare l’orrore, a far digerire la barbarie nei salotti buoni della politica internazionale.
L’Italia, come l’Europa, balbetta. Si nasconde dietro formule vuote e appelli tardivi. Le istituzioni internazionali, Onu in testa, assistono impotenti, umiliate, ridotte a contare i morti. Gli Stati Uniti, nella più plateale delle ipocrisie, parlano di “preoccupazione”, ma continuano a finanziare senza sosta l’apparato bellico israeliano e a sognare vergognosi resort. L’Occidente, che si riempie la bocca di diritti umani, non riesce a pronunciare le parole “cessate il fuoco” senza aggiungere condizioni, a senso unico.
I mezzi d’informazione, nella sua parte più servile, hanno smesso di raccontare. Hanno normalizzato l’ingiustizia, costruendo narrazioni che cancellano la sproporzione, che fingono equilibrio dove c’è solo occupazione, bombardamento, fame. I giornalisti indipendenti che resistono sono pochi, isolati, a volte uccisi, sempre più spesso diffamati o ignorati.
E mentre le diplomazie discutono a bassa voce, mentre i talk show scelgono altri temi più “presentabili”, la carne umana si macina sotto i detriti. Ospedali rasi al suolo. Convogli umanitari colpiti. Interi quartieri annientati. In nome di cosa? Della sicurezza? Della “lotta al terrorismo”? Quante migliaia di morti servono per poter chiamare le cose con il loro nome?
L’inerzia del mondo non è solo viltà: è un crimine morale. È la scelta consapevole di voltarsi dall’altra parte, di accettare che esistano vite sacrificabili, popoli senza diritto alla dignità. E domani, quando i tribunali internazionali, se mai lo faranno, chiederanno conto, la risposta sarà la solita: “Non potevamo fare di più”. Ma è una menzogna.
Si poteva fare. Si può ancora fare. Ma bisogna scegliere da che parte stare. Non della geopolitica, non dei giochi di potere, ma della vita umana, della verità, della giustizia. E chi oggi tace, chi finge imparzialità, chi chiama genocidio solo quello che conviene, sarà ricordato non come prudente, ma come pavido.
La Storia, prima o poi, presenta il conto. E Gaza è già un tribunale.