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Lo scorso 8 aprile, in Gran Bretagna, un professore ha aperto una pagina web e nelle prime righe ha scritto, in titoli maiuscoli: “Questa ricerca può salvare molte vite. Per favore aiutatemi”. Il suo nome è Philip Taylor, ed è un docente di Work and Employment Studies alla Strathclyde Business School di Glasgow. Taylor è un esperto di call center. Ed è preoccupato. Attraverso canali sindacali e accademici gli stanno arrivando segnalazioni sui rischi di contrarre il Covid-19 che troppi lavoratori corrono in call center e contact center britannici. Denunce di distanziamento insufficiente, scarsa igienizzazione, cuffie riutilizzate, sistemi di climatizzazione non controllati. Così ha deciso di lanciare un sondaggio e, con l’aiuto dei sindacati di categoria e confederali scozzesi e inglesi (Stuc, Cwu, Tuc e altri) l’ha disseminato tra gli operatori di call center scozzesi, e poi di tutto il Regno Unito.
“Per favore aiutatemi”. Ma intendeva: aiutatemi ad aiutarvi. “Abbiamo bisogno di dati per fare la differenza, per spingere le istituzioni ad agire, per far sì che i datori di lavoro negligenti imparino e cambino le loro pratiche, per rendervi sicuri”.
Il sondaggio garantiva anonimato e riservatezza a chiunque rispondesse. Nel giro di tre settimane Taylor è stato sommerso da 2.800 risposte e 200mila parole. Da ogni parte della Gran Bretagna. Messaggi che rivelavano paura, isolamento e, spesso, oggettive situazioni di esposizione al rischio di contagio. Messaggi che denunciavano casi di Covid tra i colleghi, nascosti o messi a tacere dalle aziende. Taylor li ha raccolti in un Rapporto intermedio articolato in capitoli significativi, come Malattia, morte e paura, Distanziamento sociale e contatto personale, Sanificazione e pulizia.
Ed ecco alcune delle risposte. Quasi l'88% degli intervistati ha dichiarato di ritenere probabile o molto probabile contrarre il Coronavirus a causa dell’ambiente di lavoro. Sette persone su dieci hanno ammesso di avere “molta paura” di recarsi al lavoro. Il 75,2% degli operatori conosce colleghi che hanno sviluppato i sintomi del Covid-19. Il 37,8% denuncia di essere stato seduto a meno di due metri dai colleghi (la misura minima di distanziamento stabilita in Gran Bretagna). Quasi il 73% ritiene che la distanza sociale sia inadeguata e "pericolosa" o "molto pericolosa". Una risposta su tre lamenta l’obbligo di partecipazione a riunioni di gruppo o individuali con i capi, insomma incontri in prossimità fisica avvenuti anche dopo casi manifesti di Covid-19 in azienda.
Gli allarmi maggiori vengono dagli uffici organizzati in hot desking, dove gli operatori condividono la stessa postazione, e spazi e superfici, ma in orari diversi: qui quasi uno su due (47%) accusa i datori di lavoro di completa inefficienza. Inoltre, convocati al lavoro durante la pandemia e designati tra gli “essenziali” o i “cruciali”, gli operatori intervistati, due terzi di loro, che non è poco, hanno rifiutato un’etichetta di essenzialità che, di fatto, li ha costretti a frequentare ambienti di lavoro insicuri durante il lockdown.
“Questo rapporto - commenta Taylor - rende manifesti i gravi rischi che un esercito quasi invisibile di lavoratori in prima linea stanno correndo. Ma, accanto alle cattive pratiche, abbiamo riscontrato anche comportamenti esemplari da parte di alcuni datori di lavoro”. Ad esempio riguardo alla disponibilità (minoritaria, diffusa soprattutto in grandi aziende come BT Consumer e Telefonica/02) a concedere forme di telelavoro. Ora - spiega Taylor - lo sforzo deve essere quello di rendere dominanti le buone pratiche.
“I call center sono come una capsula di Petri. È facilissimo ammalarsi e contagiare gli altri, figuriamoci durante una pandemia”: è solo una delle molte voci anonime che parlano nel Rapporto Taylor. Voci che non hanno più l’obbligo di dichiarare nome e cognome, di vendere qualcosa o di rispondere a un qualche bisogno, ma solo quello di chiedere aiuto. Il professor Taylor, tra le sue domande, ne ha poste anche di esplicite, chiedendo all’intervistato se conosceva colleghi ammalati, e quanti fossero, e cosa sapesse delle loro condizioni. Quasi 1.500 persone gli hanno risposto affermativamente, e gli hanno inviato testi molto lunghi.
“La lettura di questi commenti - ammette Taylor - è stata un'esperienza straziante, e fornire citazioni a campione non può trasmettere il dolore, la sofferenza e spesso la rabbia per le risposte che queste persone hanno ricevuto dai datori di lavoro”.
C’è chi gli ha risposto: si sono ammalati “14 su 17 del mio gruppo”. Chi: “Più di duecento”. Chi ha scritto che “quasi il 75% degli operatori del mio centro sono in condizioni non accertate”, denunciando quindi la completa assenza di controlli sanitari e igienici. Taylor ha anche ricevuto segnalazioni di decessi tra i colleghi, almeno sei operatori morti, e testimonianze colme di “rabbia per i tentativi di alcuni manager di nascondere la verità ai dipendenti”.
“A quanto mi risulta - rivela una delle risposte anonime - ci sono stati un caso confermato e due casi sospetti. Il caso confermato era un collega. Aveva bisogno di cure ospedaliere. I dirigenti ne sono consapevoli e hanno cercato di negare la situazione”. Un’altra intervista rivela che alcuni lavoratori sintomatici sono stati costretti a recarsi nel contact center, pena azioni disciplinari. Dopo metà turno sono stati rimandati a casa.
Quanto a distanziamento, igiene, sanificazioni, impianti di riscaldamento: emerge un sentimento maggioritario di precarietà ed esposizione. “Una scrivania vuota tra un desk e l’altro, ma la gente ci passa in mezzo per raggiungere una postazione disponibile. Non abbiamo postazioni fisse. Abbiamo caldo. I tavoli sono caldi”. Un’altra testimonianza: “Ci sono troppe persone nell'edificio. È letteralmente impossibile rispettare la distanza sociale. Ci sono troppi spazi stretti, tra cui l'ingresso/uscita posteriore che usiamo come ingresso principale della reception”.
"Il call center è sporco - denuncia un operatore -. Sulle scrivanie troviamo dei biglietti che dicono che sono state pulite, quando è evidente che non c'è stato nessuno. Le sedie che usiamo sono disgustose e sporche. Ogni singolo disinfettante per le mani è vuoto. Ognuno di noi preme il distributore di disinfettante per le mani durante il tragitto solo per scoprire che è vuoto. Poi tocchiamo una maniglia della porta sporca per entrare. Usiamo tastiere sporche di cui la gente non si fida. Tutto questo mentre i manager sorridono e fanno finta che sia sicuro lavorare in un ambiente così pericoloso. Sono una persona molto pulita e rispettosa dell’igiene. Sto seguendo le linee guida del governo al di fuori del lavoro. Se prendo il Coronavirus, sono convinto che sarà a causa del call center nel quale lavoro. Secondo me, qualcuno morirà a causa del modo in cui l'azienda sta gestendo la situazione. Potrei non essere io, potrebbe non essere nemmeno qualcuno con cui lavoro, ma call center con pochissimi servizi igienici, e gli addetti alle pulizie in lacrime a causa dell'aumento di pressione, non possono che trasformarsi in focolai per la diffusione del virus”.
Questo è quanto. Paura, paura e ancora paura. Non sono medici e non sono infermieri. Si trovano in una prima linea diversa. Ma hanno diritto a non avere paura, alla protezione. Nelle sue conclusioni, Taylor esorta le aziende ad accelerare nella concessione del lavoro a domicilio. L’importante, in questa fase, osserva lo studioso, è “portare gli addetti alle chiamate e i lavoratori del back office fuori da un ambiente di lavoro percepito come molto pericoloso”, allontanarli da quel “mix tossico” oggettivo o percepito nel quale sembrano essersi trasformati i loro uffici. “Le aziende hanno sia una responsabilità morale che legale ai sensi della legislazione sulla salute e la sicurezza, per quanto riguarda il dovere di assistenza ai propri dipendenti. Tale dovere deve sicuramente includere l'allontanamento dei loro addetti da un ambiente di lavoro potenzialmente pericoloso”.
Che numero dare a questa fase? Decidetelo voi.