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Mugwena Maluleke, tu sei il presidente di un sindacato internazionale (l’Ei, l’Education International) e il segretario generale di uno dei più grandi sindacati in Africa e nel mondo, il Sadtu (South African Teachers Union). Oggi hai raggiunto molti traguardi, ma chi era prima Mugwena? Raccontaci il tuo percorso politico sin dall'inizio, nel Sudafrica dell'apartheid.
Lasciatemi iniziare da dove sono cresciuto, dalla terra che apparteneva al mio bisnonno. Quando, a causa delle leggi dell'apartheid, la terra ci è stata tolta, siamo diventati lavoratori al servizio della persona, ovviamente bianca, a cui la nostra terra è andata. Con la nostra terra ci è stato tolto tutto, il bestiame, tutte le nostre pecore… Nel mio caso si trattava di lavoro minorile. La mia routine giornaliera dall’età di 8 anni era: svegliarsi, andare a lavorare, nutrire il bestiame, portarlo al pascolo. Dopo di che dovevo camminare 18 chilometri per andare a scuola in un'altra fattoria e, dopo la scuola, lavorare in quella fattoria o in un'altra, gratuitamente, perché ero un bambino. Dovevamo lavorare sei giorni, a volte sette giorni alla settimana quando, ad esempio, bisognava nutrire il bestiame per la vendita all'asta.
La tua consapevolezza politica è iniziata presto?
Fin da bambini siamo entrati in contatto con la politica grazie ai nostri nonni che ci sensibilizzavano attraverso pamphlet e altro materiale che poi mia nonna nascondeva. Oltre a fornirci delle letture, di tanto in tanto ci educava oralmente attraverso delle storie per farci riflettere su quanto fosse oppressivo il sistema dell’apartheid e su come il colonialismo li avesse davvero degradati, riducendo le loro vite a vite sub-umane. Mia nonna ci raccontava di quanto la sua vita fosse una lotta quotidiana per far crescere i suoi figli e non disperare; parte della lotta era costruire resilienza fra i più giovani attraverso l'educazione politica. Presto ho iniziato a entrare in conflitto con il proprietario della fattoria su una serie di questioni fondamentali. La più importante era il lavoro non retribuito dei bambini: pur lavorando diverse ore al giorno, non venivamo pagati perché si diceva che fossimo garanti. Non è facile da spiegare. Quando ci fu tolta la terra, ai nonni e ai genitori venne concesso di rimanervi a patto che tutta la famiglia, compresi i bambini, vi lavorasse. Se i bambini non lavoravano, allora tutta la famiglia rischiava di essere espulsa dalla fattoria immediatamente, anche se quella era stata la loro terra.
E poi?
Crescendo ho dovuto trasferirmi in un'altra fattoria, dove abitavano mio nonno e mia nonna di parte materna, perché la scuola che frequentavo arrivava fino alla quarta elementare. Questa seconda fattoria è stata quella che mi ha fatto davvero crescere politicamente a causa di condizioni di vita insopportabili. Venivo picchiato quasi ogni giorno dal contadino e dai suoi figli. Iniziavo la scuola alle 8 del mattino ma alle 9.15 finiva. Durante l'apartheid, ai bambini neri non era permesso frequentare le scuole dei bambini bianchi. Le scuole nere erano mal equipaggiate e avevano un curriculum separato che li preparava al lavoro pratico per i bianchi. I bambini in età scolare dovevano lavorare nella fattoria dalle 9.30 del mattino alle 7 di sera. Durante il lavoro venivamo picchiati pesantemente, frustati o bastonati.
Le lotte studentesche degli anni ’70 hanno raggiunto anche il villaggio in cui vivevi?
Sì, assolutamente. Nel 1974 il governo ci impose di studiare in afrikaans, considerato da molti come "la lingua dell'oppressore". Questa legge rese le cose molto difficili per noi perché usavamo l’inglese - che comunque non era la nostra lingua - e ora dovevamo passare all'afrikaans per la maggior parte delle materie. C'era molto poco rispetto per le nostre lingue africane, poca promozione, pochi investimenti. Fondamentalmente non potevamo parlarle. E questo affinava la nostra consapevolezza di quanto fosse brutale un sistema che non rispettava la nostra cultura e la nostra identità, che si perdevano, per essere assimilati. Tutto questo ci fece capire che dovevamo combattere per i nostri diritti. Verso la fine degli anni '70 lasciai la fattoria e iniziai a frequentare la scuola nel villaggio. A causa degli impegni politici non riuscii nemmeno a finire l'anno. Mi unii al movimento studentesco e divenni attivo nel Cosas, il Congresso degli studenti sudafricani. Questo fu l'inizio effettivo della mia carriera politica. Studiare non era facile perché non potevamo usare le nostre lingue indigene. Quindi quando ci fu la rivolta di Soweto nel 1976 guidata dagli studenti, avevamo già iniziato a studiare in afrikaans e quella rivolta ci aiutò a tornare all'inglese. Nel 1983 ebbi un incidente, lasciai la scuola e iniziai a lavorare a tempo pieno. Al lavoro iniziai a sfidare alcune politiche dell'apartheid che non sopportavo, diventando ovviamente molto impopolare tra i capi.
Qual era il suo rapporto, se c'era, con il movimento sindacale all'epoca, all'inizio degli anni '80?
All'epoca i sindacati erano presenti nelle fabbriche, nelle miniere e nelle istituzioni educative. Mentre lavoravo nella fattoria non incontrai sindacati semplicemente perché non c'erano ancora. Quando iniziai a lavorare in città mi occupavo di falegnameria, di piastrellatura: ero un lavoratore autonomo, non ero impiegato da nessuno. Pertanto fu solo nel 1985 che entrai in contatto con il sindacato, quando iniziai a insegnare nella scuola di una fattoria commerciale. E lo feci perché da studente ero stato in quella stessa scuola che era praticamente una prigione. Il mio obiettivo, tornando lì come insegnante, era cambiare la situazione. La prima cosa che feci fu introdurre le attività sportive che aiutarono gli studenti nella disciplina e quindi nell’essere in grado di custodire informazioni riservate che avremmo fornito loro. L'oppressione era forte e volevamo aiutarli a resistere ai Kommandos afrikaner che controllavano tutte le fattorie.
Il sistema dei Kommandos era controllato dai contadini afrikaner e dai loro alleati, giusto?
Sì. Era principalmente una milizia locale volontaria. Lavoravano insieme alla polizia e all'esercito per garantire una sorveglianza costante delle fattorie o di altre aree critiche. Volevano assicurarsi che non ci fosse attività politica o qualsiasi altra “sfida” alle attività economiche. Era un sistema capillare e pesantemente finanziato; tra le altre cose sorvegliava i confini e ovviamente si concentrava su di noi per scoprire se fossimo influenzati dall'African National Congress o da altri movimenti di liberazione. Da noi i Kommandos erano molto brutali, perché era un'area non lontana dal confine con il Botswana, dove i rifugiati politici del Sudafrica avevano trovato rifugio.
Negli anni '80 avevi già familiarità con la politica dell'African National Congress?
Ho conosciuto la loro politica grazie ai miei nonni e come studente delle superiori ero già un attivista. Da quando ho iniziato a lavorare nella scuola agricola commerciale, le cose sono cambiate perché ero un insegnante che lavorava insieme ad altri insegnanti. A causa degli alti livelli di oppressione e paura, non era facile ottenere la cooperazione degli altri. Ma il supporto ricevuto dal mio vicepreside è stato molto importante, perché mi ha permesso di iniziare le lezioni presto, al di fuori degli orari consueti. All'epoca usavamo lo sport fondamentalmente per sensibilizzare e politicizzare gli studenti in modo che potessero costruire la propria resilienza e capire l’importanza dell’unità per sradicare il sistema dell'apartheid. Quando sono diventato insegnante, la scuola chiudeva alle 9.15 per permettere agli studenti di andare a lavorare nella fattoria. Grazie alle nostre richieste, il tempo scuola è stato prolungato fino alle 12. I capi hanno iniziato a infastidirsi per il comportamento e la condotta degli studenti quando arrivavano nei campi: erano diventati riottosi, iniziavano a litigare tra di loro. Ma non stavano litigando davvero. Era deliberato. Era solo per generare caos. E così i capi hanno capito che non potevano controllare i ragazzi e in quella fattoria il lavoro minorile ha iniziato a subire una battuta d’arresto. Raggiunto il mio obiettivo, me ne sono andato.
Cosa hai fatto dopo?
Sono tornato all'università per completare la mia formazione da insegnante. È così che sono entrato a far parte di Sadtu: all’inizio noi studenti siamo stati molto importanti per la formazione di questa organizzazione.
È importante che le persone oggi sappiano che i sindacati hanno fatto la differenza in Sudafrica grazie al ruolo svolto nell'abbattere un regime di apartheid oppressivo e razzista. Oggi abbiamo molte sfide a livello globale nel mondo dell'istruzione: la più grave è quella dei conflitti armati che impediscono ai bambini e alle bambine di vedere soddisfatto il diritto all'istruzione. E poi c'è il ritorno delle misure di austerità e l'ascesa dell'estrema destra in alcuni paesi. In questo contesto quale pensi sia il ruolo del sindacalismo internazionale, in particolare di Education International?
La cosa più importante per Ei è rafforzare la solidarietà globale. Quello che abbiamo raggiunto in Sudafrica lo abbiamo raggiunto perché esisteva un movimento globale contro l'apartheid: c’erano molti sindacati nel mondo che sostenevano la nostra lotta. E credo che rispetto a ciò che stiamo affrontando in termini di conflitti armati ovunque, dobbiamo unirci con i nostri sindacati, non solo nell'istruzione. Come Education International, ad esempio, abbiamo organizzato la partecipazione dell'Ituc e di alcuni sindacati affiliati a un viaggio in Palestina. La ricostruzione del Paese in tutti i suoi aspetti - istruzione, salute, trasporti, manifattura - richiede che ci si unisca. Vedere le cose in prima persona cambia le prospettive e muove all’azione. Non solo: in Education International crediamo che l'istruzione sia un catalizzatore. Crediamo ancora che garantire l'istruzione fa la differenza: costruisce resistenza e fa capire agli studenti che hanno una voce e che possono puntare in alto.
Da questo punto di vista il finanziamento pubblico è tutto. Le misure di austerità sono il risultato di politiche neoliberali che molti governi stanno attuando: politiche che non si preoccupano dei servizi sociali. Dove c'è austerità e definanziamento per lunghi periodi di tempo, si crea un terreno fertile per la privatizzazione. Gli edu-preneurs (imprenditori dell’istruzione, ndr) cercano opportunità offerte dall’austerità: vogliono trarre profitto dai nostri bambini, dall'istruzione che è un diritto umano, un bene pubblico.
Quello di cui parli è molto rilevante per la situazione italiana. La Flc Cgil sostiene con forza il ruolo dell'istruzione per creare una cultura di pace, cooperazione e multilateralismo. Insieme alla Cgil lavoriamo per questo obiettivo. In Italia assistiamo all'ascesa delle scuole private e, insieme, alla precarizzazione di insegnanti e ricercatori. Il defunding dell'istruzione sta diventando una piaga in Italia. Cosa direbbe agli insegnanti italiani che sperimentano questa precarizzazione?
Il mio messaggio ai precari è che il sindacato è lì per loro e quindi è importante attivarsi insieme alle organizzazioni che fanno parte di Ei in Italia, come la Flc Cgil, per combattere contro la precarizzazione e per il finanziamento dell'istruzione. Come individui è difficile cambiare le cose. Bisogna essere sempre più uniti, perché un sindacato forte può essere una guida efficace nella lotta per i diritti. Questo della precarizzazione è un fenomeno diffuso in tutto il mondo, per questo è importante condividere esperienze e informazioni rilevanti con i propri sindacati, assicurandosi che le organizzazioni abbiano le migliori leve possibili da mettere sul tavolo nel confronto con i governi. Insegnanti precarizzati non sono in grado di fornire l'istruzione di qualità di cui abbiamo bisogno, perché magari sono presi dalle preoccupazioni per il proprio futuro. L’incertezza non va bene per l'istruzione.
Il Sudafrica ha assunto la presidenza del G20 il 1° dicembre 2024. Quale pensa possa essere il suo contributo?
Il Sudafrica ha assunto la presidenza del G20 dal presidente Lula. Penso che Lula abbia fatto molto bene, riconoscendo i sindacati come partner a livello globale; i sindacati, a loro volta, hanno dimostrato che possono avere un ruolo importante di indirizzo per i governi su questioni fondamentali come l’istruzione pubblica, la salute pubblica, i servizi pubblici, ma anche facendo pressione per promuovere davvero il multilateralismo, la pace e la cooperazione. Credo che il Sudafrica si sforzerà di prendere il testimone dal Brasile e di procedere sulla strada del multilateralismo e dell'internazionalismo. Sadtu ed Ei giocheranno un ruolo importante in questo senso, in connessione con i sindacati sudafricani, in modo che il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa (che proviene dal movimento sindacale), capisca che bisogna seguire l’esempio di Lula, senza mettere da parte i sindacati.
Cosa vi aspettate in particolare?
Ci aspettiamo più finanziamenti per i servizi pubblici e che la presidenza del G20 lavori per un movimento globale che chieda la fine dei conflitti armati. Ci aspettiamo che ci si spenda per un cessate il fuoco a Gaza e in Ucraina, ma vogliamo la fine dei conflitti in tutto il mondo: Libano, Yemen, Sud Sudan e in tutti i luoghi afflitti dalla guerra. Utilizzeremo lo spazio del G20 per dialogare con il presidente del Sudafrica e con gli altri ministri progressisti. In questo momento nel nostro Paese abbiamo anche ministri di destra, come la titolare dell'Istruzione che ovviamente crede nella privatizzazione. In conclusione, vorrei augurare il meglio ai sindacati in Italia che lottano per ottenere migliori condizioni di lavoro e contro tutte le misure di austerità e i movimenti di estrema destra. Crediamo che il tempo sia dalla nostra parte.
Miriam Di Paola, dipartimento Politiche internazionali Flc Cgil