Un sistema foraggiato da fondi europei con cui le autorità turche attuano deportazioni forzate e detenzioni dei profughi afghani e siriani. È quanto emerso dall'inchiesta coordinata dalla piattaforma investigativa Lighthouse Reports e divulgata da nove testate giornalistiche internazionali. Con testimonianze e immagini il consorzio europeo di giornalisti e giornalisti che indaga principalmente sulle violazioni dei diritti umani  ha portato alla luce il flusso di denaro, 213 milioni di euro, dall'Unione europea alla Turchia. 

Tra i giornalisti che hanno partecipato all'indagine anche l'italiano Giacomo Zandonini: il dossier, ci spiega, ha richiesto sette mesi di ricerca anche direttamente sul campo e testimonia l'esistenza in Turchia di “un sistema di custodia amministrativa” di persone irregolari o in condizioni non del tutto regolari, migranti rifugiati soprattutto dalla Siria e dall'Afghanistan. 

All'interno di questo sistema – che parte dalla cattura delle persone ai confini, o anche con i controlli nelle principali città della Turchia, e arriva fino al rimpatrio forzato in Paesi a rischio  c'è tutta una serie di interventi che sono direttamente legati a finanziamenti europei, una parte dei quali siamo riusciti a mappare, anche se particolarmente opachi e difficili da recuperare”. 

“La stessa Commissione europea – prosegue Zandonini – ci ha fornito dati contrastanti.  Abbiamo poi incontrato e intervistato decine di persone che sono transitate in questi centri di detenzione e che sono state rimpatriate, alcune subendo gravi conseguenze. Con una serie di fonti abbiamo ricostruito alcuni casi di persone che dopo il rimpatrio sono state uccise, come quello di un ex ufficiale dell'esercito afgano".

Omissione ingiustificabili

Lighthose Reports ha presentato i risultati di questa ricerca su diversi media europei, “ma la Commissione europea, che è il principale responsabile di questi finanziamenti insieme ai vari Paesi europei, ha glissato, sostenendo di seguire sistemi di valutazione e di essere in linea con il rispetto dei diritti umani”.

L'inchiesta dimostra in realtà che questo tipo di finanziamento è estremamente problematico, così come il comportamento dell'istituzione stessa. Quanto ci racconta Giacomo Zandonini fa presumere che la Commissione e i Paesi europei siano consapevoli di agire in modo quanto meno dubbio.

“Abbiamo parlato anche in modo anonimo con una serie di fonti all’interno delle istituzioni europee – ci conferma –, funzionari di diverso livello e diplomatici, che ci hanno in qualche modo confermato che, nonostante che in alcuni casi fossero state sollevate forti preoccupazioni, nei documenti pubblici come nelle decisioni prese a livello di Commissione e di Consiglio europeo  venivano sistematicamente cancellate le parti più problematiche”. 

“Venivano eliminati – prosegue – gli aspetti che evidenziavano una consapevolezza da parte dell'Unione europea del fatto che questi finanziamenti e questo tipo di politiche vanno anche a sostenere una serie molto dicustibile di interventi. Soprattutto, in questi centri di detenzione sono avvenuti abusi e violenze al limite della tortura, o forse proprio tortura, da parte di diversi soggetti legati alle forze di sicurezza turche, a sistemi e personale di sorveglianza di questi centri”.

Violazioni e torture

Continua il giornalista: vi sono “centinaia di migliaia di siriani e decine di migliaia di cittadini afghani che, nonostante l'Unione europea vieti il ​​rimpatrio perché si tratta di Paesi non sicuri , sono stati comunque rimpatriati. Questo va contro il diritto internazionale, ma il sistema è stato finanziato proprio affinché lo facciano altri cioè la Turchia ”.

Zandonini si sofferma poi sulla detenzione amministrativa, una misura che per essere applicata non prevede necessariamente la presenza di un reato penale. Basta non avere un titolo di soggiorno valido per essere tenuto in stato di detenzione in vista del rimpatrio: “Questo sistema, che in in Italia conosciamo abbastanza bene e che vediamo applicata nell'accordo con l'Albania, esiste soprattutto grazie a fondi europei e nasce proprio all'interno di questo processo di avvicinamento, di preadesione, della Turchia all'Unione europea. Processo oggi  bloccato, mentre non è bloccato il finanziamento in Turchia di un sistema di detenzione che è tra più i più vasti nel mondo”. 

Secondo la ricerca si tratta di quasi 30 mila posti in oltre 30 centri in cui i migranti sono trattenuti per legge fino a un anno. Essendo persone soprattutto di origine siriana, di fatto per le Nazioni unite e per l'Unione Europea, per la giurisprudenza, sono quasi sempre titolari di protezione internazionale perché provengono da un Paese in guerra, in cui ci sono fortissime discriminazioni e persecuzioni di specifici gruppi sociali, politici e religiosi. Rifugiati che rischiano il rimpatrio, o vengono effettivamente rimpatriati con conseguenze spesso drammatiche. Questo però non ha alcuna conseguenza”.  

Il ruolo dell'opinione pubblica

È importante conoscere quanto rimane mediamente ignoto all'opinione pubblica per creare consapevolezza nei cittadini, motivo per il quale le indagini di Lighthouse report trovano accoglienza su testate importanti: Der Spiegel in Germania, el Pais in Spagna, Le Monde in Francia, l'Espresso in Italia, ma anche Politico negli Stati uniti.

Il tentativo è di accendere l'interesse sulle politiche dell'Unione europea, afferma Zandonini, “raggiungendo un pubblico più ampio possibile, quindi creare consapevolezza e una forma di pressione sulle istituzioni rispetto alla possibilità di erogare nuovi finanziamenti".

“In sede europea – continua il giornalista – alcuni parlamentari stanno discutendo anche sul come proseguire con queste politiche, come continuare a finanziare la Turchia e questi centri. Dopo la nostra inchiesta ci sono state prese di posizione sui temi dell'esternalizzazione delle politiche migratorie e delle violazioni dei diritti umani, con il proposito di chiederne conto alla Commissione europea”. 

Insomma: ci sono quindi due livelli su cui agire: far sì che i cittadini sappiano il più possibile e dare uno strumento anche a chi è dentro le istituzioni e vuole che le cose funzionano in un modo diverso.
”Le nostre richieste forniscono le basi per motivare interrogazioni parlamentari – conclude – e richieste specifiche di cambiamento nelle norme e nelle politiche”.