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Promotore delle battaglie per i diritti civili della popolazione nera degli Stati Uniti, Martin Luther King è diventato il simbolo della lotta contro la segregazione razziale. Vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1964, viene assassinato il 4 aprile 1968 nel pieno della sua battaglia. Viene ucciso da un colpo di fucile mentre era sul balcone di un motel a Memphis da James Earl Ray, un criminale comune razzista. Come la maggior parte dei grandi eventi e degli omicidi politici del Novecento, il suo assassinio è ancora oggi circondato da misteri e circostanze non chiare che con ogni probabilità rimarranno tali per sempre.
Il suo discorso pronunciato nell’estate del 1963 di fronte ad un corteo di oltre 200 mila persone che pacificamente aveva invaso il centro di Washington invocando la legge sui diritti civili e cantando black and white together è ormai diventato storia.
Io ho un sogno - diceva il pastore battista - che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi! (…) Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. (…) Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia. Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà. E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: 'Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente.
“Sono stato in cima alla montagna - diceva il reverendo il giorno prima di essere ucciso - E non mi importa. Come tutti, vorrei vivere una vita lunga. La longevità ha la sua importanza. Ma non mi interessa ora, voglio fare il volere di Dio. E Lui mi ha permesso di salire in cima alla montagna. E ho guardato giù, e ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che sappiate stasera che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. Sono così felice stasera. Non sono preoccupato di niente. Non temo nessun uomo”.
Barack Obama aveva due anni quando il 28 agosto del 1963 250 mila persone ascoltavano Martin Luther King al Lincoln Memorial. Cinquant’anni dopo parlerà nello stesso luogo da presidente degli Stati Uniti; il primo afro-americano a entrare alla Casa Bianca. Con lui il deputato John Lewis, l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni - dirà - ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”.
“Un errore comune - affermava il 7 marzo 2015 Obama a Selma - è pensare che il razzismo sia stato sconfitto che il lavoro iniziato dagli uomini e dalle donne che erano presenti qui a Selma sia concluso, e che ogni tensione razziale rimasta sia frutto di situazioni contestuali. (…) Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la battaglia non è ancora stata vinta, e che entrare in un’epoca nella quale saremo giudicati solo per quello che siamo significa ammettere queste cose (…) Ma rifiuto di ammettere che niente sia cambiato, nel frattempo. Ciò che è accaduto a Ferguson può non essere un fatto isolato, ma non si tratta più di un comportamento endemico, legittimato dal costume e dalle leggi, cosa che poteva dirsi prima della nascita del movimento per i diritti civili”.
Parole sulle quali riflettere, anche oggi - soprattutto oggi - parole che ciclicamente si traducono in fatti terribili dei quali non smetteremo mai di parlare, perché parlarne vuol dire mettere in discussione un sistema che prima o poi dovrà essere definitivamente abbattuto.
A Trayvon Martin spararono a bruciapelo il 26 febbraio 2012. Aveva 17 anni. Michael Brown di anni ne aveva 18, fu ucciso il 9 agosto 2014. Contro Laquan McDonald scaricarono sedici colpi di pistola. Lui di anni ne aveva 17. Tamir Rice era solo un dodicenne, aveva una pistola giocattolo. È morto. E l’elenco degli assassinii è lunghissimo. La polizia americana ha commesso, tra il 2017 e il 2018, ben 2.311 omicidi, oltre tre al giorno. Il tasso di afroamericani assassinati dagli agenti è tre volte superiore a quello dei bianchi. Black lives matter. Non smetteremo mai di dirlo. Abbiamo un sogno. Non smetteremo mai di urlarlo.