L’obiettivo della transizione zero netto non basta. Dobbiamo costruire un futuro positivo per la natura
Frans Timmermans su The Guardian, 28 ottobre 2021

Sono passati quasi due anni dal primo caso Covid -19 e il mondo sta ancora affrontando le conseguenze. Le dimensioni dell’emergenza planetaria, della crisi climatica, della perdita di biodiversità e della disuguaglianza, sono diventate, allo stesso tempo, palesi. Mentre ricostruiamo le nostre società e le nostre economie ci troviamo di fronte l’opportunità irripetibile di costruire un futuro positivo per la natura che non dobbiamo lasciarci sfuggire. È giunto il momento di tracciare una risposta planetaria alla crisi planetaria, risposta che metta la natura al centro.

La nostra esperienza globale condivisa rispetto al Covid-19 ha sottolineato l'interconnessione dei nostri sistemi diversi. La scienza è chiara: clima, biodiversità e salute umana sono totalmente interdipendenti. Eppure, nelle discussioni sulla ripresa post-Covid, la natura non è abbastanza riconosciuta come un pezzo essenziale del puzzle di un futuro resiliente per tutti.

Una ripresa giusta, verde e rispettosa della natura è un primo passo cruciale. La ripresa ha un potenziale incredibile, se sarà ancorata alla trasformazione sistemica di lungo termine delle nostre società ed economie, dalla creazione di 395 milioni di posti di lavoro a livello globale alla fornitura di 10.1 trilioni di dollari (7.4 trilioni di sterline) in valore economico entro il 2030. Questo non vuol dire che il percorso verso la trasformazione sarà facile. Tuttavia, l'inazione sarebbe l'opzione peggiore di tutte: non solo perderemmo 10 trilioni di dollari di valore economico potenziale, ma nei prossimi 30 anni perderemmo altri 10 trilioni di dollari o più a livello globale.

Il Piano di emergenza planetaria, pubblicato dal Club di Roma, in collaborazione con il Potsdam Institute for Climate Impact Research, identifica le azioni centrali a sostegno del mutamento di paradigma che limiti il danno che facciamo al mondo attraverso le nostre attività quotidiane e passi a un mondo in cui miglioriamo e ripristiniamo la salute degli ecosistemi. Il piano invita i governi e i settori ad impegnarsi a proteggere i nostri beni comuni globali e sviluppare roadmap nazionali e settoriali per un uso rigenerativo del suolo e per società verdi, inclusive e circolari.

Ad esempio, con il passaggio a modelli rigenerativi per il pianeta e riformando i sistemi alimentari, affrontiamo contemporaneamente problemi di salute nel mondo, come l'inquinamento atmosferico e la malnutrizione, rigeneriamo la terra, le foreste e i corsi d'acqua, miglioriamo la nostra capacità di immagazzinare carbonio per raggiungere l’obiettivo zero netto e ridurre il rischio di malattie zoonotiche. Nella sola Unione europea si stima che i vantaggi collaterali in campo sanitario coprano l'84% dei costi per la riduzione delle emissioni di gas serra (in uno scenario di 1,5°C).

Cresce lentamente la consapevolezza globale del ruolo fondamentale della natura e assistiamo a segnali di progressi significativi. Nelle scorse settimane, abbiamo visto attraverso il Nature for Life Hub come diversi settori stiano aprendo la strada a trasformazioni importanti, dai vincitori del premio Equator che ridefiniscono la prosperità, creando nuovi modelli di governance e riformando le norme economiche per fissare il prezzo del carbonio, agli agricoltori che si basano su pratiche rigenerative e conservazione della biodiversità. Il Fondo globale per le barriere coralline intende investire 500 milioni di dollari nella conservazione e nel ripristino della barriera corallina nei prossimi 10 anni. È in aumento nel mondo il numero di capi di Stato e di Governo impegnati a realizzare un mondo positivo per la natura entro il 2030 attraverso il Leaders' Pledge for Nature.

Anche se lo slancio è incoraggiante, è importante andare oltre gli impegni e le promesse. In pratica, gli investimenti sul terreno sono ancora molto insufficienti. Secondo i nuovi dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), i paesi membri e le principali economie partner hanno stanziato ad oggi, nei pacchetti di ripresa dal Covid-19, 336 miliardi di dollari per misure positive in materia ambientale. Ma questo ammonta a solo il 17% delle somme totali finora stanziate per la ripresa economica dal Covid-19: i politici dovrebbero valutare attentamente se questo possa essere realmente sufficiente per ricostruire meglio.

Per emergere con successo in un futuro sostenibile all'interno dei confini planetari, ma che faccia uscire dalla povertà un miliardo di persone, la transizione deve essere globale: tutti dobbiamo percorrere insieme la strada verso un futuro positivo per la natura, andare nella stessa direzione e con la stessa velocità. Adottando la strategia sulla biodiversità nell'ambito del quadro del Green Deal europeo, l'Unione europea si adopera per guidare gli sforzi per inserire la natura nell'agenda politica e mobilitare risorse per la biodiversità non solo nell'Unione europea, ma nei paesi partner. L’Unione europea si è impegnata di recente a raddoppiare i finanziamenti esterni per la biodiversità, soprattutto per i paesi più vulnerabili.

I capi di Stato e di Governo nel mondo si incontreranno nei prossimi otto mesi in tre Conferenze delle Parti globali (COP) (la Convenzione sulla diversità biologica, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e la Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta alla desertificazione) e la conferenza di Stockholm+50. Questi eventi offrono la possibilità di dare una risposta di emergenza globale alla nostra crisi planetaria. Sarà cruciale, tra le altre cose, trovare un accordo sull'obiettivo di proteggere il 30% della terra e il 30% del mare entro il 2030, e questo dovrebbe essere uno dei principali obiettivi della COP15 del prossimo anno a Kunming, in Cina.

Tutti dobbiamo essere parte della soluzione, tutti dobbiamo uscire insieme da questa emergenza. Semplicemente non possiamo aspettare. È arrivato il momento di agire per un futuro positivo per la natura, oggi.

Frans Timmermans è vicepresidente vicario della Commissione europea, commissario europeo per il clima e il Green Deal europeo, Achim Steiner è amministratore del Programma ONU per lo sviluppo e Sandrine Dixson-Declève è copresidente dell’associazione non governativa Club di Roma

Per leggere l'articolo originale: Net zero is not enough – we need to build a nature-positive future

 

Transizioni che naufragano
El Pais, 28 ottobre 2021

Quando il mondo va male, l'Africa va peggio. Le transizioni democratiche appartengono al passato. La nuova era è fatta di arretramento e persino di distruzione della democrazia. In tutto il mondo, ma soprattutto in Africa. In Sudan, paese in cui si intravedeva ancora un orizzonte di libertà e di democrazia, l'esercito ha cacciato i civili dal consiglio che guidava la fragile transizione e ha destituito e arrestato il primo ministro, economista ed ex funzionario internazionale Abdallah Hamdok. La speranza della Tunisia, l'unica transizione araba apparentemente compiuta tra tutte quelle iniziate dieci anni fa, è svanita lo scorso luglio con il colpo infame dello stesso presidente della Repubblica, Kais Said, che ha sospeso il Parlamento e concentrato tutto il potere nelle sue mani. Ovviamente, è l'eterno ritorno al potere dell'unico potere che conta, il potere militare. Il modello è quello dell'Egitto, dove è fallito l'islamismo politico dei Fratelli musulmani e l'esercito, autentico Stato all'interno dello Stato, ha cacciato i civili dal potere con il sangue e il fuoco. Lo stesso ora sta accadendo in Sudan, dove i militari hanno interrotto l’agenda democratica che avrebbe dovuto mettere un civile alla presidenza del Consiglio di transizione questo novembre per organizzare le elezioni nel 2023. Il colpo di Stato ha messo fine al dibattito sulla consegna del dittatore destituito, Omar al Bashir, rivendicato dal Tribunale penale internazionale per aver commesso il crimine di genocidio, nel quale potrebbero essere coinvolti altri alti dirigenti militari. Il colpo di stato, inoltre, conserva gli interessi economici dello Stato profondo che sono le forze armate. E conta sulle simpatie e persino sul sostegno dell'attuale asse egemonico arabo, Egitto, Emirati, del Bahrein e Arabia Saudita, contrapposto all'Iran e alleato di Israele. La scintilla che si è accesa a Tunisi nel dicembre del 2010 ha innescato un incendio che ha liquidato quattro dittatori, il tunisino Ben Ali, l'egiziano Mubarak, il libico Gheddafi e lo yemenita Salé, e in particolare i suoi folli progetti per la successione al potere di ispirazione monarchica. Le monarchie, dalle più dispotiche alle più benevole, sono state pretenziose, ma non sconsiderate e sono state le sole ad aver resistito agli assalti. L'onda democratica iniziata nel 2011 ha perso slancio per rompersi in Siria e ha lasciato almeno due Stati falliti come la Libia e lo Yemen, ma ha raggiunto due anni fa Abdelaziz Bouteflika, il presidente inamovibile dell'Algeria dal 1999 e Al Bashir, il militare golpista e dittatore dal 1989. Negli ultimi giorni della presidenza di Donald Trump alla Casa Bianca, il Sudan è stato uno dei paesi ad aver accettato i cosiddetti Accordi di Abramo che hanno aperto le relazioni diplomatiche con Israele, in cambio della sua rimozione dall'elenco dei paesi legati al terrorismo e del rifinanziamento del suo debito. I suoi sponsor arabi, le monarchie del Golfo, temono la democrazia, mentre lo sponsor israeliano vive felice con la superiorità del suo esclusivismo. A tutti piacciono solo le transizioni che naufragano.

Per leggere l'articolo originale: Transiciones que naufragan

 

La società civile di Hong Kong
The New York Times, 25 ottobre 2021

I sindacati hanno ripiegato, i partiti politici hanno chiuso. Gli organi d'informazione indipendenti e le organizzazioni per i diritti civili sono scomparsi. Il Governo di Hong Kong, la cui autorità è sostenuta completamente da Pechino, sta facendo cessare, una alla volta, le attività delle organizzazioni della società civile, un tempo la più vibrante in Asia.

Ma l'Associazione dei Giornalisti di Hong Kong, si è rifiutata di piegarsi, anche se il segretario alla sicurezza di Hong Kong lo ha segnalato ripetutamente alle critiche avanzate dall'opinione pubblica.

“Lotteremo fino all'ultimo momento”, ha affermato Ronson Chan, presidente dall'associazione. “Ma, onestamente, è una scommessa. Con quanta crudeltà ci tratterà il Governo di Pechino? Conosciamo la storia dei giornalisti della Repubblica Popolare della Cina.

“Le autorità hanno utilizzato la legge per la sicurezza nazionale, introdotta lo scorso anno dopo mesi di proteste diffuse contro il governo, per ridurre al silenzio il dissenso. Decine di organizzazioni sono state costrette a sciogliersi.

Molte di loro sono indagate. La polizia ha arrestato i dirigenti di alcune organizzazioni e ha utilizzato la legge sulla sicurezza per costringerli a divulgare informazioni sugli aderenti e sui finanziamenti. Alcune organizzazioni sono state prese di mira dagli attacchi di funzionari e della stampa controllata dallo stato.

La società civile che non fa parte del governo e né del settore privato rappresenta un baluardo contro gli eccessi praticati tanto dal governo quanto dal settore privato. Ascolta le persone quando i poteri sono contro di loro e aiuta a dare risposte ai problemi che i governi non affrontano.

Le azioni contro i sindacati e le organizzazioni che non perseguono fini di lucro vanno ben oltre Hong Kong, perché la relativa libertà della città la pone al centro degli sforzi volti a proteggere i diritti in Cina e nella regione. Ma questo ruolo svolto da Hong Kong si sta erodendo sotto la repressione.

“Queste organizzazioni sono state importanti non solo per Hong Kong o per la Cina, ma per l'Asia intera”, ha affermato Maya Wang, ricercatrice in Cina per l'organizzazione Human Rights Watch. “Ora, si sta distruggendo, a poco a poco, il tessuto della società civile”. L'organizzazione Human Rights Watch, che si trova a New York, ha lasciato Hong Kong dopo essere stata perseguitata dalla Cina in risposta al sostegno dato dalla legge americana ai manifestanti di Hong Kong nel 2019.

L'organizzazione locale più grande costretta a sciogliersi è stata la Confederazione dei sindacati, organizzazione ombrello che conta oltre 70 sindacati affiliati. Il 3 ottobre il sindacato ha votato per lo scioglimento di fronte alla pressione crescente del governo. La Confederazione dei sindacati ha aiutato ad organizzare lo sciopero dei portuali nel 2013 e lo sciopero dei pulitori di strada nel 2018. L'attività politica dell'organizzazione, tra cui le proteste e lo sciopero generale durante le agitazioni del 2019 che sconvolsero la città, l'ha fatta diventare l'obiettivo delle autorità.

“L'attività sindacale ad Hong Kong non è molto attraente”, afferma Wang che cita le protezioni scarse del lavoro nella città. “Non c'è nessuna gratificazione, ma hanno comunque continuato”. “Il segretario generale della Confederazione dei sindacati, Lee Cheuk-yan, è in prigione, accusato di aver tenuto un'assemblea illegale sulle proteste del 2019. Lui e l'ex presidente donne, Carol Ng, sono stati accusati, in base alla legge sulla sicurezza, di sovversione in due procedimenti separati.

L'organizzazione sindacale è stata obbligata a sciogliersi dopo le minacce ricevute dai dirigenti sindacali.

“Alcuni nostri iscritti hanno ricevuto intimidazioni e avvertimenti veri sufficienti da dimostrare che stavano facendo fronte a minacce alla loro persona e alle loro famiglie se la Confederazione Sindacale fosse rimasta operativa”.

Fan, che è un funzionario sindacale, riferisce che le minacce provenivano sia da Hong Kong e sia dai servizi di sicurezza cinesi, ma si è rifiutato di fornire dettagli in merito.

Una delle organizzazioni affiliate più grandi della Confederazione sindacale, il sindacato degli Insegnanti di Hong Kong, che è il sindacato più grande della città, con oltre 100.000 iscritti, ha detto che si scioglierà quest'anno perché ha iniziato il proprio smantellamento in seguito agli attacchi della stampa statale che ha definito il sindacato un “cancro” e alla dichiarazione del governo che non avrebbe più riconosciuto l'organizzazione sindacale.

Anche gli attivisti delle organizzazioni per i diritti umani sono stati decimati. Il Civil Human Rights Front, che ha organizzato grandi cortei, ha chiuso ad agosto dopo che l'ufficio di Pechino a Hong Kong ha accusato l'organizzazione di opporsi alla Cina e la polizia ha aperto un'indagine sui finanziamenti ricevuti. L'Alleanza di Hong Kong a sostegno dei Movimenti patriottici democratici della Cina, che ha organizzato una veglia per commemorare le persone uccise durante la repressione del 1989 esercitata sul movimento di protesta della piazza Tiananmen, si è sciolta dopo che le autorità hanno iniziato a fare indagini sui finanziamenti e hanno accusato la maggior parte dei dirigenti di attentare alla sicurezza nazionale, con reati di propaganda sovversiva.

Le autorità hanno rimosso gli schermi nel museo degli attivisti pro-democrazia e bloccato l'accesso al sito web degli attivisti ad Hong Kong.

“L'Alleanza di Hong Kong ha mantenuto vive le memorie negli ultimi 32 anni, segnalando che Hong Kong era diversa dalla Cina continentale”, ha affermato Richiard Tsoi in merito alle veglie, l'unico funzionario che non è in stato di arresto.

“Ma le cose sono molto cambiate”. Molte organizzazioni continuano ad operare, ma alcune temono che la repressione possa allargarsi. “Non ci intessa affatto la politica”, ha affermato Brian Wong, del Liber Research Community, istituto di ricerca indipendente che si interessa dell'uso della terra. “Ma quello che possiamo vedere dalla terra ferma è che può essere vista come una minaccia l'intera società civile”.

Il fatto che l'Associazione dei giornalisti di Hong Kong sia relativamente lontana dalla politica potrebbe averla isolata fino ad ora. Il presidente del sindacato, di nome Chan, ritiene che la dirigenza sindacale si sia rafforzata dopo anni di retate e proteste nelle strade. Non si illudono delle difficoltà che dovranno affrontare, ma vogliono andare avanti per i loro colleghi, tra cui centinaia di giornalisti disoccupati della Apple Day. Il quotidiano a sostegno della democrazia è stato costretto a chiudere a giugno in seguito al congelamento dei suoi conti correnti e all'arresto di diversi redattori e dirigenti.

“Ho detto loro di non sciogliere il sindacato, anche nel caso in cui mi avessero arrestato”. “E se la pressione fosse stata troppo, di esercitarla sugli iscritti”. L'associazione dei giornalisti, che conta meno di 500 iscritti, è stata fondata nel 1968 per aiutare i lavoratori della stampa ad organizzare e a promuovere la libertà di stampa. Quest'anno si è concentrata maggioramene sull'aiuto ai giornalisti disoccupati, fornendo buoni spesa agli ex dipendenti dell'Apple Daily.

Chris Tang, segretario alla sicurezza di Hong Kong, ha avviato, a settembre, un grande attacco contro l'associazione dei giornalisti.

In un'intervista rilasciata al quotidiano statale Ta Kung Pao, ha criticato il sindacato per aver permesso agli studenti di aderire all'associazione e ha chiesto perché la direzione fosse composta da giornalisti provenienti da "alcune agenzia stampa", un riferimento a testate giornalistiche generalmente critiche nei confronti del governo. Ha invitato l'associazione di giornalisti a rivelare i suoi iscritti, ritornello ripetuto per settimane da alcuni media e politici sostenitori di Pechino media e politici.

L'associazione ha risposto che l'adesione all'associazione è permessa agli studenti universitari che studiano giornalismo e che rivelare la lista degli iscritti al sindacato avrebbe probabilmente violato le leggi sulla privacy di Hong Kong. Gli iscritti al sindacato provengono in maggioranza dai quotidiani tradizionali e anche da quelli controllati dallo stato. Un altro sindacato, la Federazione dei Giornalisti di Hong Kong, rappresenta i media filo Pechino.

Chan, redattore della pubblicazione online Stand News, ha detto: “Non possiamo sottovalutare il pericolo in qui siamo”.  "Ma penso che abbiamo ancora un po' di spazio".

Dopo che Tang, ex commissario della polizia di Hong Kong, è stato nominato segretariato della sicurezza a giugno, Chan ha inviato un messaggio di congratulazioni. Conosceva Tang da anni nella polizia. "La cosa più importante è che tutti siano al sicuro", ha risposto Tang su WhatsApp. "Questo dipende da te", gli ha scritto Chan. "Sarò al sicuro anch'io?” Non ha ricevuto alcuna risposta.

Per leggere l'articolo originale: Hong Kong's Civil Society

 

Il divario Nord-Sud minaccia la lotta contro il riscaldamento climatico
Le Monde, 24 – 25 ottobre 2021

La mancanza di solidarietà tra paesi ricchi e poveri rischia di ostacolare la lotta contro il cambiamento climatico. Alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP21), i paesi sviluppati decisero di stanziare 100 miliardi di dollari (86 miliardi di euro) l'anno entro il 2020 destinati alle nazioni in via di sviluppo.

Secondo le ultime cifre pubblicate a settembre dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nel 2019 sono stati assegnati solo 80 miliardi di dollari. Questa cifra non dovrebbe essere molto più alta nel 2020.

Yannick Glemarec, direttore del Green Climate Fund, il cui ruolo è quello di aiutare i paesi poveri a finanziare la lotta contro il riscaldamento globale, ha ammesso che si tratta di una cifra "deludente". A qualche giorno dall'apertura delle trattative, l'obiettivo è ancora "importante per stabilire un clima di fiducia". Nella COP26, che si terrà a Glasgow (Scozia) dal 31 ottobre al 12 novembre, i paesi del sud del mondo si faranno convincere più difficilmente dalle nuove promesse dato che le vecchie promesse non sono state mantenute, e soprattutto considerato che il finanziamento di 100 miliardi di dollari è ritenuto insufficiente. "Il problema di come raggiungere l'obiettivo di 100 miliardi sarà un argomento di discussione importante a Glasgow", afferma Simon Wilson, direttore della comunicazione del Green Climate Fund, "ma la realtà è che sono necessari trilioni di dollari per finanziare la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio”.

Durante una riunione virtuale del 30 settembre, il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha osservato che i 100 miliardi di dollari non si avvicinano nemmeno al budget per i diritti di trasmissione dell'American Football League.

Se la Cina, gli Stati Uniti e l'Unione europea insieme rappresentano circa la metà delle emissioni mondiali della CO2, una parte importante della battaglia sul clima sarà combattuta nei paesi a basso e medio reddito.

"Le economie dei paesi in via di sviluppo ricevono solo un quinto degli investimenti mondiali in energia pulita, eppure potrebbero rappresentare l'80% della crescita delle emissioni nei prossimi decenni", ha ricordato in un'intervista rilasciata a Le Monde ad ottobre, Fatih Birol, direttore esecutivo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (AIE).

Una scelta crudele

“Questa transizione è costosa: è necessario costruire parchi solari o eolici, nuove infrastrutture urbane o di trasporto, nei paesi dove il costo del capitale è più alto che altrove”.

La Banca Mondiale calcola che gli investimenti necessari in un solo paese in via di sviluppo ammontino tra i 1.000 miliardi e i 2.000 miliardi di dollari l'anno.

Diverse organizzazioni del Sud del mondo hanno sostenuto nel rapporto coordinato dalla ONG kenyota Power ShiftAfrica, pubblicato a luglio sotto il titolo “Cop26: Delivering the Paris Agreement” di “trovarsi di fronte alla scelta difficile di indebitarsi ulteriormente per combattere il riscaldamento globale, o ridimensionare le loro ambizioni per mancanza di risorse". Decine di paesi indeboliti dalla pandemia sono già vicini alla crisi del debito. Resta la mannaia degli investimenti privati. Come si può reindirizzare parte delle migliaia di miliardi di dollari in depositi sui quali si pagano tassi d'interesse molto bassi o addirittura negativi in Europa e negli Stati Uniti ai paesi emergenti che hanno bisogno di investire nella lotta contro il cambiamento climatico? In un rapporto pubblicato in ottobre, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha osservato che che gli investimenti qualificati “sostenibili" sono raddoppiati negli ultimi quattro anni, passando a 3.600 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Tuttavia, gli investimenti destinati al clima rappresentano solo una piccola parte, stimata in 130 miliardi di dollari. Gli investimenti "verdi" sono meno volatili e meno rischiosi, ma sono redditizi solo nel lungo termine", spiega Tobias Adrian, capo del dipartimento dei mercati monetari e dei capitali del FMI. A questo, si aggiungono ostacoli particolari allo sviluppo dei mercati, come la mancanza di informazioni sulle emissioni di carbonio per azienda e per settore, una politica per l'ambiente o una normativa incoerente in materia. "I finanziamenti per ridurre le emissioni di CO2 nei paesi in via di sviluppo si concentrano solo in alcuni settori, tra cui quello energetico, dal momento che è difficile investire in altri settori, come il settore delle costruzioni, che è frammentato tra più attori", ammette Gagan Sidhu del think tank CEEW, con sede a Delhi.

Per adeguare il sistema finanziario "Sono necessarie politiche, regolamenti e incentivi buoni per assicurare che il denaro sia usato per raggiungere gli obiettivi dell'Accordo di Parigi", afferma Stéphane Hallegatte. Per l'economista della Banca Mondiale, "è una sfida finanziaria piuttosto che economica". I costi di una centrale a carbone sono equivalenti a quelli di un parco per l'energia solare di lungo termine, ma l'investimento iniziale è molto più elevato rispetto all'investimento nell'energia solare.

Il sistema finanziario, quindi, si deve adeguare in modo da valorizzare i benefici nel lungo termine. Questo richiede l'uso della "finanza mista", dove l'investimento pubblico agisce come catalizzatore o si concentra sulle nuove tecnologie, che sono per definizione più rischiose.

Gli interessi dei paesi ricchi e dei paesi poveri non sempre coincidono. Mentre i paesi ricchi favoriscono gli investimenti per ridurre le emissioni di CO2, i paesi poveri vogliono usarne una parte per proteggersi dalle conseguenze del cambiamento climatico. Le Nazioni Unite, nel 2016, hanno stimato che, entro la fine del secolo, il costo dell'adattamento al riscaldamento globale sarà di 140 - 300 miliardi di dollari l'anno, solo nelle economie dei paesi in via di sviluppo.

Bisogna costruire dighe in alcune regioni, investire in un'agricoltura resiliente alla siccità in altre. Secondo l'OCSE, due terzi dei finanziamenti dei paesi ricchi sono destinati a progetti di "mitigazione" del cambiamento climatico, mentre solo un terzo è destinato a progetti di "adattamento" del cambiamento climatico, mentre l'accordo di Parigi prevede che vi sia un equilibrio tra i due progetti. Inoltre, due terzi di questi sono prestiti, mentre i paesi in via di sviluppo vedono le nazioni fortunate come se avessero un debito di gratitudine nei loro confronti per la loro responsabilità nei meccanismi di deregolamentazione del clima. "I paesi in via di sviluppo sono le prime vittime del riscaldamento globale", afferma Tobias Adrian. Lo dimostrano le inondazioni in Nepal e in India di metà ottobre, le peggiori in un secolo, che hanno provocato la morte di almeno 190 persone.

Assieme alla riduzione delle emissioni di gas serra e all'adattamento alle nuove condizioni climatiche, sta emergendo un terzo aspetto, quello dell’indennizzo per i danni causati dal riscaldamento globale.

Le inondazioni nel sud dell'India nel 2018 sono costate 3.5 miliardi di euro, una somma trenta volte superiore al bilancio del Fondo indennizzo per le calamità del paese.

Diverse ONG dei paesi del Sud del mondo, tra queste Power Shift Africa, chiedono che sia creato un fondo globale per coprire questi danni e la nomina di un rappresentante speciale incaricato di affrontare la questione degli indennizzi.

Per leggere l'articolo originale: La fracture Nord-Sud menace la lutte pour le climat

 

Cambiamento climatico. Dibattiti infuocati
The Economist, 22 ottobre 2021

I gruppi ambientalisti chiedono ai capi di Stato e di Governo nel mondo di intraprendere con urgenza azioni coraggiose. I paesi poveri chiedono danaro ai paesi ricchi. In vista del vertice sul clima di quest'anno, che inizierà a Glasgow il 31 ottobre, un gruppo di rappresentanti degli indigeni chiede donazioni di giacche, stivali di gomma e impermeabili. È stato osservato che gli indigeni dell'Amazzonia che intendono partecipare all’evento “non hanno conosciuto un clima come quello di un inverno scozzese”.

Il vertice sul clima di quest'anno è la Cop26, la 26^ Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che rappresenta i colloqui sul clima più importanti dal 2015, quando fu firmato l'accordo di Parigi e, in gran parte, quante delle promesse fatte fino ad oggi sono state onorate. Tutti i paesi avrebbero dovuto annunciare obiettivi rigorosi per ridurre le emissioni. I paesi ricchi avrebbero dovuto aiutare i paesi poveri a finanziare progetti ecologici. Il mondo, su entrambi i fronti, sta fallendo. I lavori che si apriranno a Glasgow potrebbero essere davvero raggelanti.

L'accordo di Parigi è stato adottato dalla stragrande maggioranza dei paesi, che promisero che avrebbero cercato di mantenere l'aumento della temperatura sulla superficie della Terra “ben al di sotto” di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e non oltre 1,5°C. In riferimento all’impatto negativo del riscaldamento globale, il divario tra questi due obiettivi è grande. Ma le temperature sono già aumentate, passando da 1,1 a 1,3°C dall'invenzione della macchina a vapore. Perciò limitare il riscaldamento a 1,5°C è un compito gigantesco. Per poterlo raggiungere, il mondo deve ridurre le emissioni nette di anidride carbonica del 45% nel 2030 rispetto al 2010 e ridurle a zero entro la metà di questo secolo.

L'accordo di Parigi non ha chiesto di fare riduzioni simili, né avrebbe potuto farle. I paesi, invece, hanno promesso di avviare strategie di riduzione delle emissioni, note come contributi determinati a livello nazionale (NDC). Gli NDC presentati a Parigi non hanno rispettato gli obiettivi nobili dell'accordo. Hanno portato il mondo, entro il 2100, sulla strada di aumentare il riscaldamento di circa 3°C in più rispetto alla linea di base preindustriale. Ma l’accordo sul clima richiedeva che ogni cinque anni tutte le parti dovessero migliorare gli obiettivi internazionali con nuovi NDC più ambiziosi.

 La conferenza di Glasgow (che è stata posticipata di un anno a causa del Covid-19) rappresenta la data di riferimento del primo round in cui i paesi del mondo verificano gli impegni rafforzati. I governi hanno iniziato ad annunciare i nuovi impegni lo scorso anno. I paesi ricchi sono stati più ambiziosi di quelli poveri. L'Unione Europea promette che entro la fine del decennio ridurrà le emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990. Aveva promesso in precedenza solo una riduzione delle emissioni del 40%. L'America ridurrà entro il 2030 le emissioni del 50-52% rispetto ai livelli del 2005. Aveva promesso in precedenza solo una riduzione del 26-28% entro il 2025. L’Unione europea e l’America rappresentano da sole il 23% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.

L'Australia è un’eccezione tra i paesi ricchi. L’obiettivo internazionale originale non era particolarmente ambizioso. Non lo è neanche il nuovo. Nel frattempo, molte economie dei paesi emergenti hanno fissato obiettivi blandi. La Russia e l’Indonesia non promettono di compiere nuovi sforzi. Il Messico e il Brasile, che ricorrono ad un metodo di contabilizzazione creativa del carbonio, hanno prodotto strategie nuove meno ambiziose rispetto ai loro piani originali.

L'India, che è responsabile del 7% delle emissioni di anidride carbonica, non ha ancora pubblicato una nuova strategia per il clima. Nemmeno la Cina, che rappresenta il 28% delle emissioni mondiali di anidride carbonica. La Cina ha affermato lo scorso anno che prevedeva di raggiungere il picco delle emissioni “prima” del 2030, avendo affermato in precedenza che avrebbe raggiunto questo traguardo” intorno” a quella data. Molti paesi vorrebbero che la Cina anticipasse questa data, ma Li Shuo di Greenpeace ritiene poco probabile che accada presto. È più probabile che la Cina rafforzi l’impegno dichiarando una cifra assoluta al di sopra della quale le sue emissioni annuali non aumenteranno. I nuovi obiettivi, messi insieme, sono deludenti.

Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia (IEA), le promesse presentate entro la metà di quest'anno danno la probabilità del 50% di mantenere il riscaldamento al di sotto di 2,1°C, ma solo il 5% di possibilità di mantenerlo al di sotto di 1,5°C. Questo presuppone che tutti gli impegni debbano essere rispettati, il che è tutt'altro che garantito. Sulla scia di questi annunci poco convincenti c'è l’insuccesso relativo ai finanziamenti per i paesi in via di sviluppo. Nel 2009 i paesi ricchi hanno promesso che entro il 2020 avrebbero fornito, ogni anno, ai paesi poveri 100 miliardi di dollari di finanziamenti per il clima. Importi più o meno uguali dovevano essere destinati all'adattamento e alla riduzione delle emissioni. L'AIE ritiene che la cifra sia una minima parte dell'investimento annuale di 2 trilioni di dollari di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno. Ma la promessa indica la volontà dei paesi più ricchi di fare sacrifici per il bene del pianeta.

Secondo l'OCSE, che raggruppa i paesi ricchi, sono stati assegnati nel 2019 solo 80 miliardi di dollari. Quest'anno un colpo di coda dell'ultimo minuto potrebbe forse far aumentare il totale al di sopra di 100 miliardi di dollari prima della conferenza. Ma i paesi poveri sono arrabbiati. La scadenza originale era il 2020, quando, a causa della pandemia, il totale dei finanziamenti è stato inferiore anche al 2019. Soltanto il 25% del denaro sta finanziando l’adeguamento al cambiamento climatico, invece del 50% promesso. Queste delusioni creeranno problemi al vertice. I paesi ricchi potrebbero ribadire la loro disponibilità a fare prestiti, offrendo la cifra aggregata in diversi anni da 500 miliardi di dollari tra il 2020 e il 2025. Ma probabilmente nessun paese adeguerà rapidamente i suoi nuovi obiettivi internazionali che richiedono mesi di lavoro e di coordinamento tra i dipartimenti governativi.

Invece, i progressi di Glasgow proverranno probabilmente da accordi che si raggiungeranno in incontri più ristretti, con risultati che aiuteranno i paesi ad attuare le loro strategie climatiche esistenti, rendendoli più propensi ad aumentare le loro ambizioni in futuro. Il primo dibattito è concordare le regole dei mercati internazionali del carbonio, come ad esempio cosa significa la doppia contabilizzazione dei crediti di carbonio. Il secondo dibattito riguarda la "perdita e il danno", il che significa fino a che punto i paesi che soffriranno di più a causa del cambiamento climatico dovrebbero ricevere una compensazione. L'argomento è tabù tra i paesi ricchi. A Parigi hanno permesso finalmente che il concetto debba essere menzionato nell'accordo, ma hanno respinto un linguaggio che potrebbe effettivamente portare a fare qualcosa. I paesi poveri sperano di metterlo all'ordine del giorno della discussione e di gettare le basi per discussioni più concrete in futuro.

In terzo luogo, c'è lo sforzo volto a convincere i governi a firmare impegni a livello settoriale, come smettere di generare la combustione di carbone, vietare la vendita di motori a combustione interna e fermare la deforestazione. Il nuovo patto promettente, il Global Methane Pledge, chiede di ridurre, entro 2030, le emissioni globali di metano di almeno il 30% rispetto ai livelli del 2020. È sostenuto dall'America e dall'Unione europea. Una tonnellata di metano provoca in 20 anni l'aumento del riscaldamento globale di 86 volte in più di una tonnellata di anidride carbonica, ma il gas viene naturalmente eliminato dall'atmosfera molto più velocemente della CO 2.

La Coalizione globale per il clima e l'aria pulita, composta da governi e gruppi di pressione, ritiene che dimezzare le emissioni di metano prodotte dall'uomo entro il 2050 potrebbe ridurre le temperature di 0,2°C. Il quarto argomento è quello che Helen Mountford del think-tank, World Resources Institute, chiama "mantenere vivo l'obiettivo di 1,5°C".

I gruppi ecologisti e alcuni governi vogliono che i paesi riconoscano che il mondo non sta riuscendo a rallentare il riscaldamento globale, e che dichiarino esplicitamente di voler mantenere l'aumento sotto 1,5°C. La Cina e l'India si sono rifiutate di sostenere una dichiarazione che contenesse questa richiesta al vertice del G20 di luglio. Ritengono che la rivisitazione degli obiettivi sulla temperatura comporti una rivisitazione degli obiettivi per finanziare la lotta contro il cambiamento climatico.

La carenza globale di energia dà alla discussione uno sfondo negativo. In Asia la carenza di carbone sta costringendo le fabbriche a ridurre la produzione. I prezzi del gas e dell'energia in Europa sono impazziti. I governi guardano Joe Biden che cerca di far approvare al Congresso una legislazione che contenga aiuti alle imprese di energia pulita. La controversia è un promemoria delle difficoltà che i paesi democratici affrontano quando cercano di attuare grandi riforme in materia climatica.

Il Covid-19 ha aumentato i costi e i rischi di inviare negoziatori al vertice della Cop26. In particolare, i paesi poveri potrebbero inviarne meno del solito. Anche in tempi normali sono in svantaggio rispetto ai paesi ricchi, che possono inviare orde di tecnocrati. Il fatto che molti paesi ricchi sembrino aver superato il peggio della pandemia, mentre quelli poveri stanno si dimenano ancora nella lotta alla pandemia, non farà che rendere tali disuguaglianze più gravi.

Tutto questo potrebbe approfondire la nota faziosità. Le delegazioni che partecipano alla COP formano normalmente tre blocchi. I paesi poveri chiedono ai paesi ricchi maggiore ambizione e più danaro. I paesi ricchi cercano di convincere quelli emergenti, che rappresentano la parte del leone nella crescita delle emissioni, a non inquinare. Le economie emergenti dicono ai paesi ricchi che fanno parte di fatto del gruppo dei paesi poveri e vulnerabili, mentre ricordano ai paesi ricchi che sono arrivati oggi al punto in cui sono inquinando.

Eppure, ci sono alcuni segnali che queste vecchie alleanze si stanno allentando. Laurence Tubiana del gruppo di pressione European Climate Foundation (Trump ha tirato fuori l'America dall'accordo di Parigi per poi aderire nuovamente con Biden a febbraio) dice che le economie emergenti hanno meno scuse per non agire rispetto a quando Donald Trump era alla Casa Bianca.

Alcuni paesi, come il Sudafrica, stanno aumentando le loro ambizioni. La Cina ha detto a settembre che non avrebbe più finanziato nuove centrali a carbone al di fuori dei suoi confini. I disastri naturali nei paesi ricchi, come le inondazioni in Germania che hanno ucciso quasi 200 persone, possono dare nuovo senso all'urgenza del problema. Qualsiasi progresso che si compirà alla COP26 sarà probabilmente incrementale, non un "grande salto" come ha promesso l’inviato americano per il clima, John Kerry.

Questo farà infuriare gli attivisti di base. E non importa la portata della sfida. Tra due anni il "Bilancio Globale" previsto dall'accordo di Parigi valuterà come i governi stanno attuando i piani sul clima. Se le loro promesse più recenti in materia di clima fossero un'indicazione, il bilancio potrebbe rivelare un armadio piuttosto spoglio.

Per leggere l'articolo originale: Heated Debates