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Il 9 ottobre del 1967, poche ore dopo essere stato ferito e catturato, Che Guevara viene ucciso in Bolivia.
“Tutti noi che conosciamo il Che sappiamo che non c’è modo di catturarlo vivo, a meno che non sia incosciente, a meno che non sia messo completamente fuori combattimento da qualche ferita, a meno che non gli si rompa l’arma, infine a meno che non abbia nessuna possibilità di evitare di finire prigioniero togliendosi la vita”. Con queste parole, il 15 ottobre successivo, il líder máximo Fidel Castro raccontava la fine dell’eroe della rivoluzione cubana assassinato pochi giorni prima.
La biografia
Che Guevara nasce il 14 giugno 1928 a Rosario, in Argentina (o almeno questa è la data ufficiale riportata sul certificato di nascita).
All'inizio era semplicemente Ernesto, poi a Cuba divenne il Che, la leggenda della rivoluzione. “Da argentino - raccontava Fidel - aveva l’abitudine di rivolgersi agli altri con la locuzione che, e così iniziammo a chiamarlo noi cubani”. Dopo la laurea in medicina nel 1953 il giovane Ernesto decide d'intraprendere un viaggio attraverso i diversi Paesi dell’America Latina. A Città del Messico conosce Fidel Castro i cui racconti lo faranno appassionare moltissimo alla vicenda cubana tanto da farlo aderire al Movimento 26 luglio. Liberata Cuba ha una posizione di primissimo piano nel gruppo dirigente rivoluzionario. Prima come presidente del Banco nacional (1959), poi come ministro dell’Industria (1961) compie numerosi viaggi in Africa e in America Latina diventando il simbolo della rivoluzione cubana nel mondo.
Le altre rivoluzioni
Ma il suo posto è altrove, a capo di altre rivoluzioni. Dopo un lungo viaggio in Africa, nel marzo 1965 fa ritorno all’Avana e si dimette da tutte le cariche istituzionali.
Rinuncio formalmente ai miei incarichi nella Direzione del Partito - scrive a Fidel Castro - alla mia carica di Ministro, al mio grado di Comandante, alla mia condizione di cubano. Nulla di legale mi vincola a Cuba, soltanto legami di altro genere, che non si possono rompere come i titoli. Facendo un bilancio della mia vita passata, credo di aver lavorato con sufficiente onestà e dedizione a consolidare il trionfo rivoluzionario. Il mio unico errore di qualche gravità è di non aver avuto maggior fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente rapidità le tue qualità di capo e di rivoluzionario. Ho vissuto magnifici giorni e ho provato, al tuo fianco, l'orgoglio di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della Crisi dei Caraibi. Poche volte come in quei giorni uno statista brillò tanto alto, e così provo orgoglio anche per averti seguito senza esitazioni, per essermi identificato col tuo modo di pensare e di vedere e di valutare i pericoli e i principi. Altre terre del mondo reclamano il contributo dei miei modesti sforzi. Io posso fare ciò che a te è negato dalla tua responsabilità alla testa di Cuba, ed è giunta l’ora di separarci. Si sappia che lo faccio con un misto di allegria e di dolore: lascio, qui, la parte più pura delle mie speranze di costruttore e i più cari tra gli esseri a me cari... e lascio un popolo che mi adottò come un suo figlio; ciò lacera una parte del mio spirito. Sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo ovunque esso sia; ciò riconforta e cura largamente qualunque strazio. Ripeto una volta di più che sollevo Cuba da qualunque responsabilità, salvo da quella che emana dal suo esempio. Che se la mia ultima ora mi raggiungerà sotto altri cieli, il mio pensiero andrà a questo popolo e in particolare a te. Che ti ringrazio per i tuoi insegnamenti e il tuo esempio e che farò in modo di essere fedele fin nelle conseguenze estreme dei miei atti. Che sono stato identificato sempre con la politica estera della nostra Rivoluzione, e che continuo a esserlo. Che, dovunque io starò, sentirò la responsabilità del fatto di essere un rivoluzionario cubano, e come tale agirò. Che non lascio ai miei figli e a mia moglie nulla di materiale e che ciò non mi addolora: che così sia mi rallegra. Che non chiedo nulla per loro poiché lo Stato darà loro quel che basta per vivere ed educarsi. Avrei molte cose da dirti, a te e al nostro popolo, ma sento che non sono necessarie: le parole non possono esprimere quello che io vorrei, e non vale la pena d’imbrattare carta. Fino alla vittoria sempre! Patria o morte!
La lettera
“Cari vecchi - scrive ai genitori - Sento di nuovo sotto i talloni i fianchi di Ronzinante, riprendo la strada, scudo al braccio. Sono quasi dieci anni che vi ho scritto una lettera d’addio. Se ricordo bene, mi lamentavo di non essere un soldato migliore e un miglior medico; medico, non m’interessa più, e come soldato non sono poi così male. Non è cambiato nulla di fondamentale, se non che sono molto più consapevole, che il mio marxismo si è approfondito e decantato. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che vogliono liberarsi, e sono coerente con ciò che credo. Molti mi tratteranno come un avventuriero, e lo sono, ma di un genere diverso, e di quelli che rischiano la pelle per difendere le proprie convinzioni. Può darsi che stavolta sia l’ultima. Non la cerco, ma è nel calcolo logico delle probabilità. Se così fosse, vi abbraccio per l’ultima volta. Vi ho amati molto, ma non ho saputo dar voce alla mia tenerezza. Nei miei atti sono molto rigido e credo che talvolta non mi abbiate capito. È vero, non era facile capirmi. Oggi, semplicemente credetemi”.
Sarà l’ultima lettera che scriverà loro. Negli ultimi mesi del 1966 è in Bolivia per organizzare un’insurrezione popolare ma nell’ottobre del 1967 viene catturato e ucciso. Muore l’uomo, nasce la leggenda.
La leggenda
“Il Che - affermava Castro il 18 ottobre del 1967 a nove giorni dall’uccisione parlando davanti a un milione di persone a Plaza de la Revolution all’Avana - era una di quelle persone a cui tutti si affezionavano istantaneamente, per la sua semplicità, per il suo carattere, per il suo modo di essere naturale, per la sua fratellanza, per la sua personalità, per la sua originalità (…) L’artista può morire, soprattutto quando è un artista di arte così pericolosa come può essere la lotta rivoluzionaria, ma ciò che non morirà mai è l’arte a cui ha dedicato la sua vita e alla quale ha dedicato la sua intelligenza”.
Solo il 17 ottobre del 1997 i resti suoi e quelli dei sei compagni che morirono con lui in Bolivia, arriveranno a Cuba in piccole teche di legno a bordo di rimorchi trainati da jeep.
Ad attenderli una folla di diverse centinaia di migliaia di persone.
“Perché pensano che uccidendolo avrebbe cessato di esistere come combattente? - dirà ancora Fidel Castro che dirà nell’occasione - Oggi è in ogni luogo, ovunque ci sia una giusta causa da difendere. Il suo marchio indelebile è ormai nella storia e il suo sguardo luminoso di un profeta è diventato un simbolo per tutti i poveri di questo mondo”.