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Tempi duri per i lavoratori ungheresi, non solo per le difficoltà oggettive dovute alla crisi sanitaria, economica e sociale dovuta al Covid-19, ma soprattutto per la gestione della stessa ad opera del governo Orbán.
Nel marzo dell’anno scorso il primo ministro ungherese aveva assunto pieni poteri, una prima volta, per contrastare la pandemia e i suoi effetti anche con misure di natura economico-produttiva. Il premier poteva governare per decreti a tempo indeterminato essendo stata respinta la richiesta delle opposizioni di fissare un limite temporale. Aveva la facoltà di abolire leggi in vigore, sospendere all’occorrenza l’attività del Parlamento e tenere ancora più in pugno il Paese. Tra l’altro erano state annunciate pene detentive per quanti si rendessero responsabili di diffondere informazioni false sulla situazione dello Stato danubiano. Si può facilmente immaginare quanto fosse ampia la discrezionalità del potere da questo punto di vista. Il fatto aveva contribuito ad aumentare il disagio già esistente in ambito mediatico.
Ma come si accennava, nella primavera dell’anno scorso il governo aveva dato luogo anche a provvedimenti di carattere economico e a disposizioni che hanno portato alla sospensione di punti fondamentali del Codice del Lavoro a vantaggio delle aziende peggiorando ulteriormente la situazione dei lavoratori. In pratica queste misure hanno dato un colpo di spugna al sistema dei contratti collettivi. Secondo le informazioni a disposizione, provenienti dall’Ungheria, ogni operaio è legato all’azienda per cui lavora da un contratto individuale che non può essere oggetto di contrattazione da parte dei sindacati. Si apprende che, dalla fine di maggio scorso, i datori di lavoro hanno il potere di fissare in modo unilaterale, per ogni dipendente, un programma orario relativo a un periodo di tempo di ventiquattro mesi. Se la produzione rallenta, il prestatore d’opera deve recuperare le ore perse e se decide di licenziarsi prima di aver completato il programma deve versare all’azienda un ammontare corrispondente al salario che avrebbe ricevuto una volta portata a termine la sua tabella oraria. Si tratta di meccanismi propri di una concezione padronale del lavoro che riduce ulteriormente il già angusto spazio di manovra dei sindacati e impone ai lavoratori un sistema ricattatorio. In questa situazione a tali soggetti viene negata la possibilità di protestare e di scioperare pubblicamente e si svuota di significato il concetto di lavoro come strumento di emancipazione e di partecipazione sociale. I sindacati parlano di schiavismo e a questo proposito va citato il precedente del 2018 quando, alla fine di quell’anno, il governo introdusse una modifica del Codice del Lavoro che portava a 400 il numero annuale delle ore di straordinario. In pratica il lavoratore doveva anticipare ore di prestazioni straordinarie sulla fiducia, per vederle retribuite più avanti ma chissà quando. Il fatto portò a una serie di manifestazioni di piazza guidate dalle organizzazioni sindacali che parlavano, appunto, di legge schiavista. Il governo sosteneva di aver concepito questa modifica nell’interesse dell’economia ungherese e degli stessi lavoratori, i sindacati replicavano che si trattava di provvedimenti basati su una logica ricattatoria con i quali l’esecutivo cercava di risolvere il problema della scarsità di manodopera qualificata andata all’estero, nei paesi europei economicamente più solidi per trovare migliori condizioni di vita e di lavoro. Il governo precisava che gli straordinari non erano obbligatori, ma quanti lavoratori dipendenti avrebbero avuto il coraggio di rispondere negativamente alle richieste aziendali? La paura di perdere il posto era più forte della necessità di far valere i diritti del lavoro. Per i sindacati, quindi, la legge sugli straordinari era stata un regalo alle aziende, soprattutto a potenti soggetti stranieri operanti in Ungheria come l’Audi, la Mercedes e l’Opel che contribuiscono in modo considerevole alla crescita economica del paese.
L’Ungheria sta attraversando tempi difficili nei quali risulta essere tutt’altro che scontato, nel paese, il godimento di diritti fondamentali tra i quali quelli legati al mondo del lavoro. Tutto si è complicato con la diffusione del Covid che ha creato una situazione critica. Situazione che abbisogna di interventi con i quali dar luogo a forme di tutela sociale. Di fatto, la gestione della crisi da parte del governo Orbán finisce col pesare soprattutto sulle fasce sociali più deboli. Il sistema creato e diretto dall’uomo forte d’Ungheria assume in questo modo la connotazione di uno spazio dai tratti marcatamente liberisti che favorisce le grandi aziende e crea pesanti squilibri nel mondo del lavoro.