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Settecentocinquanta milioni di persone al mondo soffrono la fame. Ce lo fa sapere il Global Hunger Index (Ghi) redatto annualmente da Welthungerhilfe e Concern Wordlwide, la cui edizione italiana è stata curata dal Cesvi e presentata alla vigilia dell’apertura della Cop28 di Dubai.
Per chi è nato negli anni 60, come chi scrive, il tema della fame nel mondo è stato un leitmotiv che ha finito con l’assuefarci al problema, tanto da arrivare a ignorarlo. Certamente passi in avanti per curare un dramma che colpisce i più fragili son stati fatti dallo scorso secolo a oggi, ma l’Indice globale della fame (Ghi) 2023 ci dice che a partire dal 2015 questi passi avanti si sono in gran parte arenati.
I principali imputati sono “le conseguenze negative dei cambiamenti climatici, dei conflitti, delle crisi economiche, della pandemia globale e della guerra russo-ucraina” che, come si legge nella sinossi del Cesvi, hanno accresciuto le disuguaglianze sociali ed economiche e rallentato, se non fermato del tutto, i precedenti progressi nella riduzione della fame in molti Paesi. In buona sintesi le responsabilità sono del genere umano e dei governi mondiali che, a soli sette anni dalla data prevista per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, non hanno saputo, o forse voluto, arginare sufficientemente il dramma della fame nel mondo.
La mappa della fame
I più esposti alle crisi sono i Paesi a basso e medio reddito. Si legge nel rapporto: “La capacità di un Paese di riprendersi dagli shock dipende in larga misura da alcune condizioni di base, come la fragilità dello Stato, la disuguaglianza, la cattiva governance e la povertà cronica”. Le previsioni per i prossimi anni non sono certo rosee: “Il mondo dovrà affrontare un numero crescente di shock, provocati soprattutto dai cambiamenti climatici”. Centrale sarà quindi l’efficacia della preparazione e la capacità di risposta alle catastrofi.
“L’Asia meridionale e l’Africa a Sud del Sahara sono le Regioni del mondo con i più alti livelli di fame, entrambe con un punteggio di 27,0, che indica fame grave”. Una situazione che si rivela costante da vent’anni. La fame rimane grave o allarmante in 43 Paesi e in testa ci sono Burundi, Lesotho, Madagascar, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sud Sudan e Yemen.
Se vogliamo proprio dare spazio a una qualche speranza, dobbiamo andare a vedere i dati di Angola, Ciad, Etiopia, Niger, Sierra Leone, Somalia e Zambia i cui punteggi di Ghi del 2000 indicavano livelli di fame estremamente allarmanti e che hanno invece registrato miglioramenti nel 2022.
Le vittime
Se vogliamo capire intuitivamente chi paga le maggiori conseguenze della fame, è sufficiente guardare i quattro indicatori utilizzati dal report: la denutrizione, l’arresto della crescita nei bambini, il deperimento e la mortalità infantile al di sotto dei cinque anni. “I giovani si affacciano all’età adulta in un contesto di sistemi alimentari ingiusti e insostenibili, incapaci di garantire la sicurezza alimentare e nutrizionale, e altamente esposti ai cambiamenti climatici e al degrado ambientale” si legge in un approfondimento tematico contenuto nella sinossi, che ha per altro come sottotitolo “I giovani hanno il potere di plasmare i sistemi alimentari”. La gioventù non solo subisce ora gli effetti negativi “ma erediterà anche tali sistemi in crisi con i problemi che comportano”.
Le raccomandazioni strategiche
Il rapporto non si limita a fare la cupa fotografia della situazione mondiale, ma avanza delle raccomandazioni e delle proposte. Sintetizzando in titoli quanto è invece dettagliato ne documento, è necessario per prima cosa “porre il diritto al cibo per tutti al centro della trasformazione dei sistemi alimentari, quindi “investire nelle capacità dei giovani di assumere un ruolo guida nella trasformazione dei sistemi alimentari”. Si sollecitano infine gli investimenti “in sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti per garantire che offrano ai giovani mezzi di sussistenza efficaci e attraenti”.