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L’aggressione russa all’Ucraina ha risvegliato sentimenti critici verso il pacifismo e la nonviolenza. L’inizio delle ostilità ha polarizzato il dibattito imponendo di misurarsi sempre con la preventiva condanna dell’aggressore e l’inevitabile conseguenza di legittimare la difesa armata degli aggrediti. La scelta dei governi occidentali di armare gli aggrediti sembra l’unica possibile e i pacifisti sono accusati di essere poco realisti, se non dei pavidi che chiedono agli aggrediti di sacrificarsi e arrendersi senza combattere. Se non si reagisce adesso, saremo vittime di nuove future aggressioni, in quanto i prepotenti potranno contare sull’accondiscendenza degli inermi, e tutti saremo più insicuri.
Da due mesi ascoltiamo queste voci di guerra. Siamo circondati da fatti di guerra e la guerra appare ineluttabile. Una tragedia, di cui non possiamo fare a meno. Apparentemente ci indigniamo per la cattiveria che vediamo, eppure reagiamo restando prigionieri di una mentalità arcaica che ci rende preda delle logiche della guerra. Armi, bombe, morti, orfani, prigionieri, profughi appaiono come l’inevitabile prezzo che si deve pagare per tornare a vivere in pace. La guerra appare uno strumento di pace. Senza guerra, nessuna pace sembra possibile.
Ragionando in questo modo facciamo come gli antichi romani, che dicevano che per costruire la pace bisogna prepararsi alla guerra. La storia non ci ha insegnato granché. Abbiamo perso la memoria breve della distruzione della Seconda guerra mondiale. Abbiamo cancellato il ricordo della violenza, che genera mostri e priva l’umanità delle doti che la rendono diversa dalle altre bestie. Abbiamo dimenticato Auschwitz, ma anche Sarajevo e Damasco. Non ci accorgiamo che ci siamo abituati alle guerre?
Abbiamo ignorato troppe guerre, più o meno vicine. Abbiamo pensato che non ci riguardassero. Ci sembrava di vivere in pace, anche se le guerre c’erano: vivevamo “una terza guerra mondiale a pezzetti”, come diceva Papa Francesco, ma non ce ne preoccupavamo davvero. Ci sembrava un modo di dire e non una realtà concreta. Non era la nostra realtà. Ma adesso che la guerra si è nuovamente avvicinata, ci ritroviamo incapaci di dire parole di pace e fare gesti di pace. Non riusciamo a cambiare paradigma e la spirale della violenza ci avvolge. Perciò, ci sembra ragionevole prepararci a combattere con armi sempre più distruttive.
Reagiamo così perché non abbiamo ancora maturato la consapevolezza propria dei pacifisti, che sanno che la guerra non è un conflitto, ma uno strumento arcaico – e peraltro dimostrabilmente inefficace – per gestire i conflitti. Si fa la guerra quando le risorse della ragione sono esaurite e si abbandona il campo lasciandolo alla ragione della violenza. La guerra la comincia sempre chi è convinto di essere più forte e di potersi perciò imporre. La comincia chi non ha più armi per convincere e decide di usare quelle per vincere.
I conflitti seguono dinamiche note, e quando non si affrontano i nodi, il groviglio cresce e alla fine sembra districabile solo usando la spada. La violenza alimenta la guerra e questa fa persino dimenticare le ragioni del conflitto. Ogni giorno di combattimento allontana la possibilità di tornare indietro. Perseguendo l’obbiettivo di vincere, finiamo per dimenticare perché abbiamo cominciato la guerra. Così la pace sembra essere alla fine della guerra.
In realtà la pace non è la fine della guerra, e non sta nemmeno all’inizio. La pace non è un intervallo fra guerre, come appunto pensavano gli antichi romani, ma si colloca su un piano diverso. La pace è frutto di parole e gesti di pace. Si costruisce con la giustizia, la solidarietà, la nonviolenza, che sono strumenti opposti alle armi di guerra.
Parlare di pace e nonviolenza sembra accettabile solo in assenza di guerra. In realtà, c’è più bisogno di pace quanto più c’è guerra. Fare la pace significa difendersi sempre dalla violenza, e non solo quando si è aggrediti. Difendere è l’obbiettivo costante dei nonviolenti, che proteggono sé e gli altri dalla violenza, e lo fanno senza uccidere, senza distruggere, senza violentare. La difesa armata non è l’unica difesa possibile.
La guerra sembra ineluttabile perché non siamo allenati alla pace. In guerra uccidere diventa lecito, in pace no. Per scegliere la pace possiamo partire da qui. Possiamo riprenderci il potere di disobbedire a chi comanda di sparare. Un ordine che qualche volta proviene da noi stessi. Ci sembra naturale, logico, lecito e quindi spariamo. Possiamo decidere di non armare le nostre coscienze. Di disarmare le nostre braccia. E la pace verrà.
Pierluigi Consorti, Centro interdisciplinare Scienze per la pace dell’università di Pisa