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Kabul è in mano ai talebani, il presidente Ashraf Ghani aveva già lasciato la città. All’aeroporto di Kabul si consumano le attese e le speranze delle afghane e degli afghani che cercano di lasciare il paese insieme agli stranieri in fuga. Comunque la si provi a raccontare, un disordinato ritirarsi della coalizione che diede il via alla guerra. Comunque la si guardi, sono i civili le vittime che pagano il prezzo di un altra guerra afghana.
Una guerra durata vent’anni e finita qualche tempo fa nei colloqui di Doha tra inviati di Trump e talebani. Non sapremo mai, probabilmente, il contenuto effettivo dei colloqui e degli accordi, e forse altrettanto non sapremo il perché dell’accelerazione del ritiro degli Usa e degli altri paesi della coalizione. Un ritiro di uomini e mezzi spesso attuato “dimenticandosi” delle donne e degli uomini che avevano lavorato con e per loro. Però sappiamo bene, e non da ora, che la filosofia della democrazia esportata con le armi, che la war on terror teorizzata dagli Usa e dalla coalizione, era fallimentare e ha fallito. Non poteva che essere così.
D’altra parte, come far stare insieme le parole "guerra" e "giusta"? Così un altro tassello di destabilizzazione, dopo l’Irak, dopo la Libia (ma l’elenco è lungo), è stato messo. Non ci saranno le scuse e forse nemmeno pentimento e riflessioni, per costruite strategie diverse da quelle armate. Ai confini, e non solo, si stanno già pensando nuove convenienze, alleanze, riconoscimenti utili a comporre e ricomporre continuamente il risiko delle alleanze e degli interessi.
Mentre i talebani avanzavano molto più rapidamente del previsto in territorio afghano, mentre giornalisti, interpreti e tante e tanti altri chiedevano di non essere abbandonati, l’Europa discettava, facendo mostra del suo terribile egoismo, del rimpatrio dei profughi e richiedenti asilo afghani, pensava di chiudere le frontiere.
(Un fermo immagine del video che mostra il caos all'aeroporto di Kabul)
In queste ore le statistiche ci dicono che i paesi europei hanno così tradotto in parole e responsabilità comune, ciò che molti stavano già facendo. Dimentichi della responsabilità dei paesi che quella guerra l’hanno condivisa e praticata. Non vedere e non sapere sembra essere il ritornello delle cancellerie, pur con importanti eccezioni.
Per lungo tempo il racconto della guerra afghana era corredato da due obiettivi: la sconfitta del terrorismo e la libertà delle donne tradotta in "via il burka" e diritto all’istruzione. In queste ore, tra le tante notizie che si susseguono, non sempre verificabili, c’è il ritorno del burka e le liste di donne-bambine “destinate” ad essere “mogli” dei combattenti. È drammatico dover dare per scontato che le donne afghane saranno le maggiori vittime, le più abbandonate alla fine di una guerra tornata al punto di partenza vent’anni dopo.
Saranno delle ragazze i sogni infranti e la vita infernale. È difficile in queste ore non pensare anche alla guerra al terrorismo e riflettere sulle strategie utilizzate. La memoria corre alle donne curde e yazide, che la guerra all’Isis l’hanno fatta combattendo e difendendo la loro libertà e il loro territorio. Come per le donne afghane, ne abbiamo parlato molto, per dimenticarle quando le truppe turche le hanno stuprate e uccise, quando hanno invaso il loro territorio.
Si sa, troppo spesso le “ragioni di stato” non vedono le persone e soprattutto le donne. Difficile immaginare soluzioni giuste, ma certamente si potrebbero fare delle “piccole” scelte importanti, corridoi umanitari subito e tanta, tanta pressione perché non si richiudano le porte delle scuole. Per permettere a ragazze e ragazzi di avere una libera istruzione. Scelte che, ammettendo una dura sconfitta, tengano almeno accesa una luce.