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Riassumiamo. La Commissione Ue ha attivato la clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità. Gli Stati dell’eurozona possono deviare dagli obiettivi di medio termine della finanza pubblica senza far scattare le procedure d’infrazione. Era ora. La Bce si è svegliata e ha annunciato, dopo i primi balbettii, nuova liquidità per 750 miliardi. Un Quantitative Easing di dimensioni massicce per acquistare titoli del debito pubblico e aggredire la crisi economica e finanziaria. Una sterzata di 180 gradi, necessaria dopo le follie della Lagarde. Era ora. Mario Draghi scende in campo e striglia l’Europa teutonica colpevolmente restia a rompere i tabù del debito pubblico e dei deficit di bilancio pubblico. Era ora.
Bene la sterzata della Bce
Anche il Mes, nella prima proposta italiana, potrebbe divenire un trampolino di lancio per i Coronavirus Bond, obbligazioni sovrannazionali europee. Un fondo di mutuo soccorso per contrastare gli effetti nefasti della pandemia. Germania e satelliti nordici permettendo, naturalmente. Insomma, pur se tra strappi e resistenze, alcuni passi avanti. Politiche fiscali e monetarie espansive. Nazionali e sovranazionali. Proposte in divenire.
Sarà sufficiente? Il Fmi stimava nella nota dell’11 marzo un calo del Pil italiano dello 0.6%, un aumento del rapporto debito-Pil fino al 137% e un deficit al 2.6%. Tre settimane dopo viene da ridere (o piangere). Il lockdown disposto dal Governo per bloccare il virus avrà effetti negativi ben superiori. Li conteremo con il pallottoliere. In punti di Pil. Secondo le prime stime, in continuo aggiornamento, una caduta tra il 5 e il 10% del Pil italiano rispetto al 2019, restando in attesa delle stime ufficiali Istat di fine aprile. E un balzo in avanti del debito pubblico, del deficit primario e della disoccupazione. E tutto in un quadro mondiale in recessione, con un impatto negativo tra il 2.5 e il 4.8% del Pil mondiale secondo i conti della scorsa settimana di Banca mondiale e Organizzazione mondiale della sanità. Ma con numeri destinati a salire per la diffusione del virus e le nuove misure di lockdown mondiale.
In definitiva, una crisi internazionale di domanda e offerta insieme che frantuma le catene del valore trans-settoriale e trans-nazionale di una economia mondiale, ormai globalizzata e interconnessa. Con complesse filiere produttive che legano tra loro le principali economie avanzate, tra cui la nostra, rendendole però più fragili alle scosse che colpiscono gli anelli della delocalizzazione e esternalizzazione. Un’eterogenesi dei fini.
La sanità pubblica non può essere competenza dei singoli Stati
In questo corto circuito internazionale viene da chiedersi se gli strumenti consueti della politica economica nazionale siano adeguati per fronteggiare una contrazione così rilevante del Pil. Può la politica fiscale rimanere prerogativa dei singoli Stati? Può la politica industriale (se c’è) e quella del lavoro riguardare il solo assetto nazionale? Può la sanità pubblica, e l’emergenza attuale, essere di competenza dei singoli Stati, delle Regioni, senza coinvolgere il contesto sovranazionale, almeno quello europeo? Possono i mercati, le imprese e il lavoro fronteggiare da soli la crisi? Ritengo di no.
Siamo oggi disposti a cedere - seppur transitoriamente - parte delle nostre libertà per fermare il contagio. E a rinunciare almeno ad una parte della vita sociale per il benessere collettivo. È allora anche necessario chiederci se sia il caso di ripensare al nostro attuale “modello di sviluppo”, e all’idea di Paese coltivata negli ultimi decenni. Efficienza produttiva, giustizia sociale e libertà individuale – una triade difficile - richiedono, per essere realizzate, grandi risorse e partecipazione collettiva. Con un elevato grado di condivisione economica e politica. E con un rinverdito ruolo dello Stato nell’economia per individuare – come scriveva Keynes nel 1936 – almeno i volumi della produzione e la dimensione degli investimenti.
Servono grandi risorse e partecipazione collettiva
Le obiezioni ad una svolta in questa direzione sono note e riguardano l’inadeguatezza delle funzioni di governo nel saper equilibrare le scelte individuali con quelle collettive, limitando distorsioni e soprusi. Ma i tempi storici e quelli attuali sono diversi. Le economie si globalizzano. La nuova tecnologia è già antica. Gli equilibri geo-politici mutano. I credo più recenti della politica economica si sgretolano.
Nelle condizioni attuali la mano pubblica può tornare a svolgere il suo ruolo principe di coordinamento delle scelte individuali e di connettore dei corpi intermedi. E gli investimenti pubblici possono ricominciare ad essere lo strumento di sviluppo che furono nei primi decenni del secondo dopoguerra. Specialmente se nel quadro europeo - obiettivi, risorse e impieghi - vengono condivisi a livello comunitario.
Una potente leva, come quella delle Partecipazioni Statali
Un passaggio evidentemente delicato. Non scontato. Ma una potente leva come fu, in Italia, quella delle Partecipazioni Statali che ne compensò la scarsità degli investimenti innovativi dando un imprescindibile contributo allo sviluppo industriale e all’occupazione. Una leva, però, ai tempi del Covid-19, sovranazionale, che richieda un dialogo più moderno ed efficiente tra le istituzioni europee. Tra gli Stati nazione e la Comunità sovranazionale. Tra pubblico e privato. Tra sviluppo e sostenibilità. Quando, come ora, la profittabilità tende a zero e il rischio dell’innovazione frena investimenti e occupazione. Un moderno cantiere europeo per riaprirsi alla strategia del futuro.
Giuseppe Travaglini è professore ordinario di Politica economica presso l'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo