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La Ue, da anni, sta costruendo una solida normativa per regolare la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica. L’ultimo atto il regolamento sull’intelligenza artificiale. Sul contenuto si è giunti, dopo molti mesi di discussione, a un accordo politico tra Parlamento Europeo, Commissione europea e Stati nazionali. Non è ancora pubblico il testo definitivo, perché alcuni temi (i più controversi?) sono oggetto di limature in corso. Il regolamento prende molto dal Gdpr (strumento fondamentale per la regolazione nell’uso dei dati) e rilegge consolidandoli gli impegni indicati nell’autoregolamentazione delle imprese statunitensi del settore.
Per completezza di quadro va anche detto che la normazione Ue inizia ad essere d’esempio per la nuova regolamentazione del fenomeno da parte della Cina. La filosofia dell’A.I. Act è regolare il fenomeno attraverso una gradualità d’intervento. A seconda della rischiosità delle diverse applicazioni ci sono obblighi diversi, si va quindi dal divieto totale alla mitigazione presupponendo, come fondamento, un controllo dell’uomo sulla macchina.
La logica giuridica è coerente, questo è il presupposto per mantenere tutele individuali e collettive, diritti fondamentali: la democrazia, lo Stato di diritto e la sostenibilità ambientale. Vista la velocità con cui gli strumenti tecnologici evolvono sarà necessario continuare ad approfondire e studiare per aggiornare l’impianto normativo. Siamo infatti in attesa di un ulteriore testo sulla regolazione del lavoro di piattaforma, concetto non proprio facilmente configurabile vista l’interdipendenza del mondo del lavoro e la orizzontalità della transizione digitale.
Diciamo che tornando al testo aspettiamo con qualche preoccupazione i limiti posti all’uso del riconoscimento facciale e all’analisi delle emozioni, due strumenti pericolosi che si legano al controllo sociale e alla valutazione dell’individuo che rischiano di limitare le libertà personali e dare a Stati e aziende un potere immenso. Manca poi, dal nostro punto di vista, un chiaro riferimento al mondo del lavoro, da intendersi come l’esercizio della tutela collettiva. Infatti, come sempre più spesso avviene, nella nuova normativa si regolano i diritti soggettivi senza renderli esercitabili collettivamente, non indicando le modalità di controllo e verifica nell’uso di tali tecnologie magari ex ante da parte dei soggetti di rappresentanza collettiva.
Vero che il Dlgs 104/22 (nonostante le modifiche in pejus della Legge n. 85 del 3 luglio 2023) indica l’informativa per motivi di trasparenza alle organizzazioni sindacali, in caso di uso di nuovi strumenti di lavoro digitali, ma sappiamo bene per esperienze passate che, in assenza di un chiaro riferimento, si rischia di dover ricorrere al giudice con l’allungamento dei tempi per l’esercizio di una tutela.
Certamente la strumentazione normativa mette i cittadini europei in una condizione di maggiore tutela formale davanti alla pervasività degli strumenti digitali, ma rimangono due questioni non eludibili per chi guarda alla sostanza e alla realtà pratica.
Come Cgil abbiamo in più occasioni sollecitato istituzioni, forze politiche e parti sociali sulle implementazioni necessarie (da ultimo il 15 dicembre al tavolo di lavoro - Europa che Innova, nell’ambito dell’iniziativa del Pd sull’Europa), per giungere ad una consapevole difesa di lavoratori e cittadini davanti ad una trasformazione che rischia di aumentare diseguaglianze e determinare squilibri sociali ed economici difficilmente ricomponibili.
Due questioni su tutte:
La gestione della transizione digitale
Tema fondamentale è la consapevolezza (alfabetizzazione digitale) della popolazione certamente, ma anche di come il singolo cittadino o lavoratore possa esercitare il proprio diritto alla tutela della propria privacy piuttosto che alla tutela della propria opera d’ingegno o del proprio lavoro. Non basta indicare un diritto perché questo sia esercitabile da tutti, è quindi indispensabile, oltre all’informazione e alla formazione critica, individuare i soggetti di rappresentanza che siano in grado di esercitare collettivamente una tutela, dalle associazioni dei consumatori fino alle organizzazioni sindacali.
Va costruita, anche attraverso un impianto normativo, una rete di tutela che connetta istituzioni, associazioni e autorità competenti al fine di gestire la regolazione del fenomeno. La stessa regolazione dell’IA prevede ad esempio, così come si era fatto nella Gdpr con il Garante per il trattamento dei dati, un comitato di controllo e verifica per l’applicazione del regolamento, sia a livello comunitario e che nazionale (anche qui vedremo il testo definitivo del regolamento).
Noi continuiamo a dire che c’è una esigenza di intervento anticipatorio di processi e applicazioni, per questo ci domandiamo se non sia necessario rafforzare il ruolo delle autorità competenti, sia dal punto di vista organizzativo che funzionale, per intervenire con maggiore efficacia e diffusione, anche nell’ottica di non ingessare processi industriali ed economici che altrimenti pagherebbero ritardi e limiti burocratici.
Sino ad oggi come sindacato ci è capitato di chiedere l’intervento del Garante del trattamento dei dati su “grandi casi”, ci viene naturale pensare che con la diffusione sempre più capillare di questi strumenti sarà indispensabile costruire un “modello di autorità” speculare a quello dell’Ispettorato del Lavoro, con una correlazione forte con le parti sociali per provare ad anticipare eventuali problemi sul trattamento dei dati e sull’uso dell’intelligenza artificiale.
L’abbiamo già detto, c’è una esigenza straordinaria di confronto su questi temi e questi nuovi strumenti di lavoro, bisogna cogliere le positività di una trasformazione che genera ricchezza per: migliorare le condizioni di lavoro, liberare le persone dalla fatica e dal rischio di incidenti. Lo spazio del confronto è la contrattazione collettiva, i contratti nazionali e gli accordi di secondo livello nelle aziende debbono essere agiti per determinare una giusta transizione.
Questo spazio di confronto non è solo l’esercizio di una tutela individuale contro strumenti che possono determinare sfruttamento e invasività, ma è la possibilità per rivendicare (nella discussione sui modelli organizzativi e produttivi) salario, riduzione d’orario di lavoro e occupazione, attraverso una redistribuzione del “plusvalore generato dalle macchine”.
Le politiche industriali e l’innovazione tecnologica
Questa è l’altra questione determinante per la tutela delle persone, del modello europeo e della qualità del lavoro. Se il vecchio continente non si doterà di un sistema industriale e di ricerca comunitario sull’innovazione tecnologica non sarà mai in grado di determinare il modello tecnologico del futuro, subirà i modelli di Usa e Cina. Non basterà un’ottima regolazione normativa per fermare la pervasività di questi modelli sociali e culturali, non basterà provare a bandire le tecnologie cinesi per motivi politici.
La verticalità (le grandi multinazionali) e l’orizzontalità (l’enorme diffusione) non consentiranno una gestione coerente con il modello europeo se non ci sarà la capacità di generare modelli tecnologici che siano in grado di competere sul mercato. Gli enormi investimenti economici di Usa e Cina in ricerca, formazione, infrastrutture non possono essere colmati se non attraverso grandi investimenti comunitari e massimizzazione delle capacità produttive anche dell’attuale sistema industriale europeo.
Invece sembrano ancora prevalere egoismi e competizione tra Stati membri, con una difficoltà per molti Paesi, il nostro per primo, ad uscire da una logica che dagli anni ’90 ha visto l’arretramento dello Stato dall’indirizzare le politiche industriali, una tendenza che ha lasciato miliardi di investimenti pubblici generare profitti invece che ricerca, innovazione e occupazione di qualità.
Il rischio è che i processi di deindustrializzazione proseguano rendendo i cittadini europei fondamentalmente consumatori di prodotti creati altrove, con effetti su occupazione e qualità del lavoro. Le nuove tecnologie genereranno milioni di posti di lavoro, non è ancora chiaro come e dove penderà la bilancia, è chiaro però che in assenza di capacità produttiva da parte delle imprese europee saranno le grandi multinazionali a determinare la collocazione degli investimenti e del lavoro, saranno loro a determinare la ricchezza o la povertà produttiva di una terra.
La formazione e le nuove professioni
La questione nuove professioni e formazione è direttamente collegata alle scelte di politica industriale e alla capacità delle parti (istituzioni e parti sociali), di programmare la trasformazione produttiva sulla base dell’innovazione, della sostenibilità ambientale, dei bisogni sociali.
Non bastano i fondi professionali, non basta il fondo nuove competenze pensato più come un ammortizzatore sociale per le crisi in essere che non per la determinazione di un cambio di paradigma sul modello economico e produttivo.
Siamo nel pieno della rideterminazione di equilibri geopolitici con conflitti regionali, guerre commerciali e guerre per accaparrarsi le riserve naturali del pianeta, il vecchio continente è ad un bivio e la politica deve fare scelte coraggiose che determineranno le condizioni di milioni di persone.