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Il vero scandalo del sistema fiscale sta in ciò che è legale
The New York Times, 9 giugno 2021
Gli americani ricchi possono risparmiare un mucchio di danaro imbrogliando sulla dichiarazione dei redditi che presentano a livello federale, ma questo non è niente in confronto a quanti soldi hanno risparmiato seguendo le regole. In un esame condotto sugli archivi fiscali di 25 americani ricchi, l’organizzazione non profit che produce giornalismo investigativo, ProPublica, ha rivelato, martedì, che alcuni miliardari più importanti del paese hanno dichiarato un reddito tassabile inferiore rispetto alla crescita rapida della loro ricchezza.
Ad esempio, Jeff Bezos ha aggiunto, tra il 2014 e il 2018, una ricchezza stimata di 99 miliardi di dollari, ma ha dichiarato solo 4.22 miliardi di dollari di reddito imponibile nel periodo di riferimento. Warren Buffett, che ha accumulato 24.3 miliardi di dollari di ricchezza nuova in quegli anni, ha dichiarato 125 milioni di dollari di reddito imponibile. ProPublica, che dichiara di non sapere chi ha fornito i dati riservati, ha svolto un servizio pubblico prezioso pubblicandoli, evidenziando come alcune delle persone più ricche degli Stati Uniti vivano essenzialmente in un sistema di tassazione del reddito diverso dal resto di noi. Un esercito di volontari si è subito precipitato in difesa dei miliardari del paese, insistendo sul fatto che non si può rimproverare loro di seguire le regole. Ma non è un caso che gli Stati Uniti utilizzino una definizione di reddito imponibile enormemente vantaggiosa per i ricchi. I nuovi dati indicano che dobbiamo pensare a una definizione diversa del reddito imponibile.
Ai fini fiscali, il reddito da tassare negli Stati Uniti è sostanzialmente inteso come danaro. Ad esempio, una persona che riceve una quota di azioni, non deve segnalarlo come reddito. Anche quando un investimento aumenta di valore non è considerato come reddito imponibile. Ad aprile, gli economisti Emmanuel e Saez a Gabriel Zucman hanno calcolato che gli americani più ricchi possiedono 2.7 trilioni di dollari di ricchezza sui quali non hanno pagato le tasse.
La logica di questa norma si basa su tre presupposti non veri. Il primo presupposto è che l’aumento del valore degli asset è in un certo senso irreale, o quanto meno non utilizzabile. La Corte Suprema stabilì lo standard nel 1920, decretando che una donna che riceve delle quote di azioni non deve pagare le tasse sul loro valore perché il trasferimento delle azioni “non toglie nulla alla proprietà della società e non aggiunge nulla a quella dell’azionista”.
Ma la realtà è che molti americani ricchi vivono nel lusso contraendo prestiti sul valore dei loro asset. L’organizzazione ProPubblica dà l’esempio di Elon Musk, che ha concesso azioni della Tesla per un valore di 57.7 miliardi di dollari come garanzia per ottenere prestiti personali, procurandogli un sacco di soldi da spendere, anche se nella realtà, sembra che non abbia poi bisogno di un reddito normale. L’organizzazione ProPubblica ha riferito che nel 2018 non ha pagato tasse a livello federale.
Il secondo presupposto molto comune per la sua falsità è che le persone alla fin fine pagano le tasse sulla loro ricchezza, stabilendo i tempi, ma non evitando il fisco. Questo è ridicolo. È facile accumulare ricchezza che non viene mai tassata. Gli asset possono essere protetti mettendoli nelle fondazioni non profit, i cui beneficiari principali possono essere le persone che li gestiscono. Gli asset possono essere trasferiti ai figli e ai nipoti. E meglio ancora, il governo permette agli eredi di acquisire la proprietà al valore attuale, cancellando la responsabilità del debito fiscale accumulato.
Buffet non pagherà mai le tasse sulla stragrande maggioranza della sua ricchezza. Lo dice apertamente, quando dice a ProPubblica che crede che sia meglio per la società che le sue ricchezze vadano in beneficienza “invece di essere utilizzate per ridurre leggermente il debito americano che cresce sempre”.
La terza osservazione è che tassare la ricchezza sia un incubo burocratico. Esistono difficoltà a stabilire delle regole per determinare il valore degli asset. Esistono anche degli aspetti negativi, come la possibilità che qualcuno debba vendere un asset per pagare le tasse. Ma sappiamo che questo si può fare perché gli americani pagano già le tasse sulla proprietà e sembra che funzioni. I dati di ProPubblica sottolineano che persino per coloro che non sono pronti a saltare sul carro della tassa sulla ricchezza è necessaria una revisione significativa del sistema fiscale.
La tassazione del reddito a livello federale è stata concepita per essere progressiva, il che vuol dire che coloro che fanno più soldi dovrebbero pagare le tasse con aliquote più alte. Ma gli americani ricchi non lo fanno. I dati resi pubblici mostrano che nel 2018, l’anno più recente per il quale sono disponibili i dati, lo 0,001% più alto dei contribuenti, ossia 1.400 famiglie, ha pagato una percentuale più bassa di tasse rispetto all’1% più alto restante dei contribuenti. L’aliquota fiscale effettiva per questo gruppo elitario era del 22,9%.
Secondo ProPublica, nel 2018 gli americani ricchissimi hanno pagato le tasse con un’aliquota ancora più bassa, solo il 13,3% del reddito imponibile, meno della famiglia media americana, che ha pagato circa il 14% di tasse a livello federali su 70.000 dollari di reddito imponibile.
Per alcuni, l'aliquota effettiva era notevolmente più bassa. ProPublica ha rivelato che l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha pagato solo il 3,7% di tasse sul reddito. La notizia di ProPublica non dice che i ricchi hanno infranto la legge. Per quanto ne sappiamo, tutti loro hanno rispettato scrupolosamente la legge. Ma occorre anche tener conto che non lo sappiamo davvero, perché il governo ha rinunciato largamente a verificare che i ricchi paghino quanto dovuto. L'amministrazione Biden ha proposto un certo numero di cambiamenti che potrebbero eliminare queste disuguaglianze, tra questi un'aliquota massima più alta sul reddito dichiarato, più finanziamenti e cambiamenti nelle regole per aiutare il fisco a colpire l'evasione fiscale, eliminando la regola del "step up" che permette agli eredi di evitare di pagare le tasse su alcune ricchezze accumulate. Ma nessuno di questi cambiamenti basta ad affrontare l'ingiustizia di fondo che i ricchi vivono in base a diverse regole, spendendo nel lusso denaro che non è tassato come reddito. Ho sostenuto che il governo dovrebbe divulgare gli importi delle tasse che ognuno paga, proprio come divulga le tasse sulla proprietà. La notizia di ProPublica sottolinea il tema della trasparenza. Permette agli americani di giudicare il funzionamento del sistema fiscale. Come ho scritto nel 2019, "Pubblicare una lista di milionari che hanno pagato poco o niente tasse quest'anno potrebbe ridurre significativamente il numero di milionari che pagano poco o niente tasse l'anno prossimo." Le rivelazioni del passato, tra cui i Panama Papers e le rivelazioni sulle finanze di Donald Trump, hanno presentato degli spaccati sulla tendenza all'evasione fiscale. Questi dati nuovi offrono qualcosa di più completo. Spero che sia sufficiente per convincere la gente che il cambiamento è necessario. Gli americani più ricchi vivono in base a regole diverse.
Per leggere l'articolo originale: The Real Tax Scandal is What's Legal
Europa sociale. Stati disuniti
Le Monde, 8 giugno 2021
La pandemia ha evidenziato le carenze dell’Unione europea, ma ha rilanciato anche la volontà comune di agire per dare ai cittadini un modello sociale più protettivo. Ma questo progetto, che richiede sinergia tra gli stati in materia fiscale e mercato libero, è ancora lontano dall’essere unanimemente accettato. Per Filipe Costa, giovane portoghese di 19 anni, “l’Europa ti deruba o ti salva, dipende dagli anni”. La storia di questo giovane portoghese e della sua famiglia riassume gli errori delle politiche europee degli ultimi 15 anni. All’inizio della crisi del debito sovrano del 2010, sua madre, cuoca di professione, perse il lavoro. Allora il Portogallo stava per sprofondare in una drammatica recessione, aggravata dalle misure di austerità imposte ai paesi della “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Commissione europea e Banca Centrale europea). “Non c’era più lavoro, speranza, tutti partivano. Come molti altri emigrammo in Brasile”, racconta Filipe, che allora aveva 9 anni.
Filipe e sua madre sono tornati a Lisbona nel 2016, quando l’economia portoghese, grazie al turismo, stava ripartendo di nuovo. Il giovane ha lasciato il liceo nel 2019 per lavorare in uno dei ristoranti della capitale. È stato un periodo di entusiasmo, ma tutto è poi precipitato con il Covid quando mi sono ritrovato a terra”. Si è iscritto alla fine del 2020 al corso di formazione per meccanici all’interno del programma Garanzia Giovani” che, con i finanziamenti europei, aiuta i giovani senza formazione a reintegrarsi. “Ecco, l’Europa mi ha respinto ed ora ci aiuta rialzarci. Ma durerà?”
Sostenere i giovani, aiutare coloro che hanno perso il lavoro durante la pandemia, non ripetere gli stessi errori del 2010. Queste sono le promesse che oggi i dirigenti europei presentano al mondo che verrà. “Durante la crisi, il modello sociale europeo si è rivelato più protettivo di quello degli Stati Uniti”, sottolinea Clément Beaune, segretario di Stato per gli affari europei, che parla anche della disoccupazione parziale finanziata in parte dai prestiti dell’Unione europea (dal programma SURE), gli aiuti forniti alle famiglie e alle imprese, come il piano per la ripresa da 750 miliardi di euro.
Dato che sarà necessario fare di più per debellare le conseguenze della pandemia sull’economia, gli Stati membri dell’UE hanno assunto tre impegni supplementari nel vertice sociale di Porto del 7 e 8 maggio: entro il 2030, bisognerà ridurre di 15 milioni il numero di persone minacciate dalla precarietà in Europa, portare al 78% la percentuale di persone tra i 20 anni e i 64 anni che lavorano, garantire che almeno il 60% degli adulti sia formato annualmente.
È un’impresa enorme, considerato che il tasso di occupazione supera a malapena il 60% in Italia e in Grecia e che il tasso di povertà supera il 20% in Bulgaria, in Lettonia e in Estonia. Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dichiara regolarmente: “Costruiremo un’Europa sociale forte”.
“Un’idea piuttosto vaga”
Ma al di là di queste belle promesse, che cosa significa Europa sociale? “È proprio su questo punto che tutto si complica. È un’idea piuttosto vaga e nessuno la definisce allo stesso modo”, afferma Philippe Pochet, direttore generale dell’Istituto Sindacale Europeo (Etui), esperto della materia.
Per Luca Visentini, segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati, “Creare l’Europa sociale significa proteggere i lavoratori europei”. “Significa coordinare i diversi modelli sociali e assicurare che le politiche europee portino a risultati migliori in campo sociale”, afferma David Rinaldi della Fondazione Europea per gli Studi Progressisti (Feps). “Dal di fuori, essa incarna soprattutto le caratteristiche del modello europeo, che è più protettivo di quello degli Stati Uniti, nonostante le differenze nazionali e le azioni volte a rafforzarlo”, aggiunge Sofia Fernandes, ricercatrice dell’Istituto Jacques Delors.
In linea di massima, le questioni sociali sono essenzialmente una prerogativa nazionale, l’Unione europea svolge un ruolo in questo settore più di sostegno e di coordinamento. Il Trattato di Roma del 1957 che creò la Comunità Economica Europea non diceva molto in proposito, ma istituì il Fondo Sociale Europeo (80 miliardi di euro per il 2014-2020) con il compito di promuovere l’occupazione e l’integrazione. Questo fondo finanzia in Francia una serie di progetti piccoli a livello locale, come un ristorante che occupa lavoratori disabili nella regione della Garonna o un programma per aiutare i senza fissa dimora a Parigi. Inoltre, nei diversi decenni, l’Unione europea, nonostante i poteri limitati, ha implementato una serie di norme comuni, come la durata dell’orario di lavoro settimanale di 48 ore, l’età lavorativa minima legale a 15 anni, o il congedo di maternità di almeno 14 settimane. “Si dimentica che in Spagna, in Portogallo e in Grecia, queste norme comuni hanno contribuito nel tempo ad innalzare gli standard nazionali”, afferma Maurizio Ferrara, professore di scienze politiche all’Università di Milano. “L’idea secondo cui la crescita avrebbe aiutato i paesi meno ricchi a recuperare il ritardo economico e sociale ha funzionato all’inizio piuttosto bene”, aggiunge Massimiliano Mascherini della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofond).
Le politiche del rigore
Tutto è cambiato nel 2004, quando i governi di allora a maggioranza liberale e conservatrice nominarono una Commissione favorevole alla deregolamentazione ed alla moderazione salariale, diretta da José Manuel Barroso. Il direttore di ricerca al CNRS ed esperto di sistemi sociali europei, Jean Claude Barbier, ritine che “Questo abbia cancellato l’agenda sociale, che è stata successivamente dominata dalle regole di bilancio comuni che hanno impedito la realizzazione di tutto il resto”.
La crisi del 2008 non ha aiutato. Le politiche di austerità introdotte nel 2010 hanno incoraggiato la flessibilizzazione dei mercati del lavoro e la liberalizzazione dei sistemi sociali, accentuando la recessione. “Questa crisi ha provocato molti danni, da allora l’Europa è apparsa per alcuni cittadini del sud la fonte dei problemi”, afferma Maurizio Ferrara. Ma sono emerse soprattutto le carenze dell’integrazione europea: la tanto auspicata convergenza dei livelli di vita non ha funzionato per tutti, in parte perché l’unione monetaria manca di meccanismi veri di solidarietà di bilancio. “Il mercato unico e l’euro hanno favorito la concentrazione delle attività nei grandi centri competitivi, a discapito delle città piccole e delle zone periferiche”, riassume Shahin Vallée, ricercatore del Consiglio tedesco per gli affari stranieri. Questa tendenza non è stata fermata dai fondi strutturali che si concentrano sulle infrastrutture.
E oggi? Il tono è un po' cambiato. I capi di Stato e di Governo hanno adottato nel vertice sociale di Göteborg, in Svezia, nel 2017, il Piano Europeo dei Diritti Sociali, un insieme di principi e di diritti sociali in ambito sociale (pari opportunità sul lavoro, apprendimento permanente, assistenza all’infanzia) da estendere negli anni e che sono stati riconfermati nel vertice sociale di Porto. La Commissione sta elaborando una direttiva sui salari minimi, ha rafforzato l’estate scorsa la “garanzia giovani” e vuole proteggere meglio i lavoratori delle piattaforme. “L’Europa del 2020 – 2021 non è più l’Europa del 2009 – 2010, quella della “troika” e del rigore, afferma Clément Beaune, che assicura che la Francia quando assumerà la presidenza di turno del Consiglio europeo nel gennaio del 2022, accelererà i lavori su questi temi. Ha cambiato il modo di lavorare, anche se i cittadini europei non se rendono ancora conto.”
Davvero? In che misura? Come spesso accade quando si parla di Europa, il bicchiere mezzo vuoto offre una lettura diametralmente opposta a quella del bicchiere mezzo pieno. Questo è in parte dovuto al fatto che il cambiamento nel modo di lavorare auspicato da Francia e Portogallo non trova il consenso degli Stati membri. "Molti paesi non vogliono che l'Europa metta il naso nelle questioni sociali, che rimangono una loro prerogativa", riassume Jean-Claude Barbier. E questo accade per ragioni molto diverse.
"Un passo enorme”
I paesi nordici si oppongono al progetto del salario minimo comune, come a qualsiasi misura che potrebbe, a loro dire, degradare il modello nazionale della contrattazione collettiva. Al contrario, i paesi dell'Europa orientale temono l’imposizione di standard elevati, che comprometterebbero il loro vantaggio competitivo: bassi salari e basse tasse alle imprese.
La Germania, anche se attenua la sua posizione, teme che questo porti ad un allentamento della disciplina fiscale. "Le differenze attinenti ai modelli sociali e il capitalismo tra i paesi membri complicano la convergenza", sostiene Pawel Tokarski, esperto di eurozona euro all'Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza di Berlino. "Di conseguenza, il valore di una politica sociale centralizzata non è evidente", aggiunge Niclas Frederic Poitiers del centro di ricerca Bruegel a Bruxelles.
Per di più, il progetto di un’"Europa sociale forte" è ancora intralciato dalla concorrenza fiscale tra i paesi, anche se è in discussione un'aliquota minima sulle imprese del 15%. E spesso impallidisce in confronto alla potente Europa della concorrenza, dove le prerogative della Commissione sono più ampie. Un diplomatico europeo riconosce che "L'idea che il libero mercato non debba essere limitato è ancora molto viva nelle istituzioni, e questo a volte contraddice gli obiettivi di protezione".
A questo si aggiungono le regole del patto di stabilità che limitano il deficit pubblico al 3% del Pil e il debito al 60% del Pil. Queste regole sono state al momento sospese, ma dovranno essere ridiscusse nel 2022. "Se non saranno riviste per fare spazio agli investimenti sociali nella spesa pubblica, non cambierà nulla", sostiene Pervenche Bérès, ex presidente della commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo (2004-2009). "La politica fiscale tiene sotto controllo la politica sociale". Lei lamenta il fatto che anche il piano per la ripresa europea non abbia incluso nessuna quantificazione dell’obiettivo. Se la transizione ecologica non sarà accompagnata da uno sforzo reale per formare i lavoratori della "vecchia economia", peggiorerà le disuguaglianze.
"È vero, ma l'Unione europea ha fatto ugualmente un passo enorme nell'ultimo anno", insiste Massimiliano Mascherini, che cita la solidarietà inedita introdotta con il piano per la ripresa europea, finanziato in parte da sovvenzioni e da prestiti congiunti Sure. I pessimisti sottolineano che questi meccanismi sono temporanei e che i sostenitori dell'austerità usciranno allo scoperto non appena ci lasceremo alle nostre spalle la pandemia. Gli ottimisti, invece, credono che gli impegni presi a Porto dimostrino che l'Europa abbia finalmente compiuto una svolta sociale. Almeno sulla carta. " Ora la sfida è non deludere queste promesse", conclude Sofia Fernandes.
Per leggere l'articolo originale: Europe sociale. Etats désunis
I paesi scandinavi rifiutano l’imposizione del salario minimo
Le Monde, 8 giugno 2021
Gli scandinavi rifiutano l’imposizione del salario minimo. Anche se il responsabile dei contratti collettivi della centrale sindacale svedese LO, Torbjörn Johansson, non parla ancora di una "Swexit", ha sollevato un serio problema il 19 maggio. In un'intervista rilasciata al giornale Arbetet, ha detto che i sindacati svedesi dovrebbero "iniziare a chiedersi se l'adesione all'Unione europea è stata una buona decisione". In discussione è il progetto di direttiva UE sui salari minimi.
In Svezia, come in Danimarca, i sindacati e i datori di lavoro non la vogliono. Godono del sostegno dell’intera classe politica, che è compatta nel rifiutare il salario minimo regolato per legge. Therese Guovelin, vicepresidente di LO, ha così riassunto: "Siamo naturalmente a favore di un'Europa sociale e siamo convinti che l'agenda abbia buone intenzioni in questa direzione. Ma l'unico modo per accettare questa direttiva è esserne esclusi completamente.”
Le parti sociali danesi e svedesi hanno condotto per mesi una campagna contraria al progetto di direttiva perché vi vedono una minaccia al modello economico e sociale scandinavo. Nei due paesi, non esiste un reddito minimo legale: i livelli salariali sono regolati mediante gli accordi collettivi, negoziati dalle parti sociali, senza intervento politico. Rispettivamente, il 90% e l'80% dei posti di lavoro in Svezia e Danimarca sono coperti da tali accordi.
Ricordo doloroso
Secondo Therese Guovelin, un salario minimo imposto per legge avrebbe gravi conseguenze, "Indebolirebbe inevitabilmente il nostro modello di negoziazione paritetica. C'è il rischio che aumenti l'intervento statale, poiché la direttiva richiede che lo Stato ne controlli l'attuazione e riferisca a Bruxelles. E Anche se la Commissione europea riconosce la specificità del modello scandinavo, "non c'è alcuna garanzia che la Corte di giustizia europea non imponga la sua decisione".
Le parti sociali in Svezia hanno dei ricordi dolorosi sul caso Laval. Il 18 novembre 2007, la Corte di giustizia europea stabilì che il blocco di un cantiere edile da parte dei sindacati svedesi per costringere un appaltatore lettone a firmare gli accordi collettivi era illegale in base alle norme europee sulla libera prestazione dei servizi. "Non possiamo rischiare di ritrovarci nella stessa situazione", dice Gabriella Sebardt, direttore degli affari sociali alla Confederazione delle industrie svedesi.
Alla fine, potrebbero essere i lavoratori a soffrirne, afferma Bente Sorgenfrey, vicepresidente del sindacato danese Fagbevægelsens Hovedorganisation (FH), che sottolinea che la Danimarca è "uno dei paesi dove si vive meglio, anche con salari più bassi". Sorgenfrey ritiene che l'intervento dello Stato nella fissazione del salario possa portare a "un indebolimento dell'adesione ai sindacati (che nei due paesi supera il 70%) e aumentare il rischio di una riduzione dei salari e l'emergere di lavoratori poveri".
I danesi e gli svedesi minacciano di portare la questione in tribunale se non verranno ascoltati. "Questa è chiaramente una violazione dell'articolo 153.5 del Trattato di Lisbona, secondo cui l'Unione europea non deve interferire con il livello delle retribuzioni negli Stati membri", sostiene Therese Guovelin.
Il 14 ottobre 2020, le parti sociali scandinave hanno inviato una lettera al presidente francese, Emmanuel Macron, nella quale gli hanno chiesto "di non sostenere la direttiva UE che ostacolerebbe la creazione di sistemi forti e autonomi di negoziazione paritetica in tutta l'Unione europea", ricordandogli che sono stati spesso indicati come modelli.
Per Göran von Sydow, direttore dell'Istituto svedese di studi politici europei (Sieps), questo dossier evidenzia la posizione "paradossale" dei paesi scandinavi, che "vogliono promuovere una dimensione sociale dell'Europa, ma vorrebbero che si ispirasse al loro modello e non sono pronti a trasferire troppe decisioni a Bruxelles".
Per leggere l'articolo originale: Les Scandinaves refusent de se voir imposer un salaire minimum
Covid: più di 200 leader chiedono al G7 di aiutare urgentemente a vaccinare i paesi poverissimi
The Guardian, 7 giugno 2021
Sono oltre 100 gli ex primi ministri, presidenti e ministri degli Esteri tra le 230 principali personalità che invitano i capi di Stato e di Governo dei potenti paesi del G7 a pagare due terzi dei 66 miliardi di dollari necessari per vaccinare contro il Covid i paesi con reddito basso.
La lettera, che è stata letta dal Guardian prima dell'inizio del vertice del G7 ospitato da Boris Johnson in Cornovaglia, avverte i capi di Stato e di Governo del Regno Unito, degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, dell'Italia, del Giappone e del Canada di compiere nel 2021 “un punto di svolta nella cooperazione globale”. Meno del 2% della popolazione dell'Africa sub sahariana è stata vaccinata contro il Covid, mentre il Regno Unito ha immunizzato il 70% della sua popolazione con almeno una dose di vaccino.
L'impegno giunge mentre Johnson fa fronte ad una ribellione di decine di parlamentari contrari ai tagli al bilancio degli aiuti esteri, che hanno colpito i paesi più poveri e i progetti di ricerca sul coronavirus. Johnson ha dichiarato, domenica, che avrebbe chiesto ai suoi omologhi nel vertice del G7 di “innalzare il livello della sfida nell'era del dopo guerra” “vaccinando il mondo entro la fine dell'anno”, ma non ha fornito dettagli in merito ai finanziamenti o alla condivisione delle dosi di vaccino.
Tra i firmatari della lettera sulle vaccinazioni c'è Gordon Brown e Tony Blair, due ex primi ministri intenzionati a voler mettere da parte le divergenze del passato per unirsi agli sforzi volti a fare pressione sul G7. Brown ha dichiarato che la proposta costerà al Regno Unito 30 pence a persona la settimana “per la migliore polizza assicurativa per il mondo”.
Le principali personalità che hanno firmato la lettera comprendono l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban-Ki Moon, l'ex presidente irlandese May Robinson. Il primo ministro Bertie Ahern e 15 ex capi di stato africani, tra cui il presidente Olusegun Obasanjo della Nigeria, John Mahama del Ghana e FW de Klerk del Sud Africa.
Gli altri firmatari comprendono l'ex ministro per lo sviluppo d'oltremare del Regno Unito, Lynda Chalker, il fondatore del Virgin Group, Sir Richard Branson, il direttore del Wellcome Trust, Sir Jeremy Farrar, il premio Nobel per l'economia Bengt Holmström e l'economista Lord O’Neill.
Sostengono che l'investimento sia accessibile e vitale per arrestare la diffusione delle nuove varianti che potrebbero compromettere le vaccinazioni in corso. “Il 2020 è testimone del fallimento della cooperazione globale, ma il 2021 potrebbe inaugurare una nuova era. Nessuno è al sicuro dal Covid-19 finché tutti non saranno al sicuro”. “L'aiuto del G7 e del G20 per rendere facilmente accessibili i vaccini ai paesi con reddito medio-basso non è un atto di carità, quanto piuttosto è nell'interesse strategico di ciascun paese, e come descritto dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) è “l'investimento pubblico migliore della storia”.
I firmatari della lettera sostengono che i sondaggi indicano che l'opinione pubblica è con loro. Uno studio commissionato da Save the Children ha rivelato che il 79% delle persone nel Regno Unito pensa che il G7 debba pagare per rendere il mondo sicuro. In cinque paesi, gli Stati Uniti, la Germania e il Canada, così come il Regno Unito, tralasciando i “non so”, oltre il 70% pensa che il loro paese debba pagare la sua parte.
Il direttore generale di Save the Children, Kirsty McNeill, membro della coalizione Crack the Crises, formata da 75 organizzazioni che rappresentano 12 milioni di persone, ha dichiarato che le persone di diversi paesi e di diversa estrazione sociale, appartenenti a diverse fasce d'età, appoggiano la necessità di un accesso equo ai vaccini: “Vogliono che il G7 metta nuovamente il mondo al sicuro. L'opinione pubblica non sarà disposta ad accettare qualcosa di diverso da un piano vero pienamente finanziato che risolva la crisi globale del Covid”.
Si stima che siano necessari 66 miliardi di dollari per due anni per vaccinare il mondo. Per gli ex capi di stato e di governo il G7 dovrebbe pagare due terzi del costo, a seconda delle dimensioni delle loro economie.
Brown ha dichiarato che “per il G7 pagare non è una carità, è un'auto protezione dalla diffusione della malattia, dalle sue mutazioni e dal suo ritorno che minaccia noi tutti”. “Il costo di appena 30 pence per persona la settimana nel Regno Unito, è un prezzo esiguo da pagare a favore della migliore polizza assicurativa per il mondo. I risparmi provenienti dalle vaccinazioni che si realizzeranno dovrebbero raggiungere i 9 trilioni di dollari entro il 2025”.
Sempre secondo i firmatari della lettera, il primo passo che il G7 deve compiere è impegnarsi a finanziare il 67% necessario per i vaccini, i test e il programma di trattamento delle Nazioni Unite, denominato Acceleratore per l'Accesso agli Strumenti Covid (ACT-A). Brown sostiene che l'allocazione da parte del FMI dei diritti speciali di prelievo per un totale di 650 miliardi di dollari ai paesi con reddito basso consentirebbe loro di pagare la loro parte.
“Ho esaminato la questione di come pagare questa soluzione di condivisione degli oneri. La gente dirà che non abbiamo abbastanza danaro”. “Ogni paese riceverà questa sovvenzione, questo danaro dal Fondo Monetario Internazionale. Stanno per ricevere dal FMI 21 miliardi di dollari. Questo permetterà loro di affrontare a spesa e di fare la loro parte”.
Nella lettera si legge, inoltre, che il G7 dovrebbe fare strada alla condivisone delle dosi di vaccino, agli accordi volontari di licenza e alle deroghe temporanee dei brevetti per permettere di iniziare la produzione di vaccini in ogni continente. Questo richiede alle aziende farmaceutiche di condividere il Konw-how tecnologico e le competenze, nonché la formula per produrre vaccini.
Infine, “L'allineamento della politica economica globale è vitale. Nella fase iniziale della ripresa dal Covid – 19 dell'ultimo anno siamo stati fortunati che la maggior parte dei paesi abbia seguito politiche simili, ottenendo un livello accettabile di allineamento politico. Nella prossima fase abbiamo bisogno di concordare un piano per la crescita globale con interventi monetari e fiscali per evitare che si verifichi una ripresa diseguale e squilibrata e garantire un futuro più inclusivo, equo e più verde”.
Per leggere l'articolo originale: Covid: more than 200 leaders urge G7 to help vaccinate world’s poorest
L'accordo al G7 sulla tassazione è un "punto di partenza" sulla strada verso la riforma globale
Financial Times, 7 giugno 2021
Ora si deve cercare un accordo al G20 e tra i 139 paesi che partecipano ai colloqui dell'Ocse.
L'accordo raggiunto questo fine settimana sulla tassazione dei principali paesi avanzati del mondo è la prima prova concreta di una cooperazione internazionale riesumata da quando il presidente Joe Biden ha riportato gli Stati Uniti al tavolo negoziale. C'è, tuttavia, una lunga strada ancora da fare prima di poterla realizzare. "Questo è un punto di partenza", ha affermato il ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire, promettendo che "nei prossimi mesi lotteremo per garantire che questa aliquota minima dell'imposta sulle imprese sia la più alta possibile".
L'accordo ha l'obiettivo di eliminare le scappatoie sfruttate dalle multinazionali per ridurre le loro imposte, garantendo che paghino di più nei paesi in cui operano. I ministri del G7 hanno sostenuto un'aliquota minima globale di almeno il 15% e hanno concordato che i paesi dovrebbero avere il diritto di tassare una certa percentuale dei profitti delle multinazionali più grandi e redditizie nei luoghi in cui vengono generati i profitti.
Tuttavia, ancora molto resta da decidere nei negoziati globali più ampi, che sono in corso tra 139 paesi all'Ocse a Parigi. Il primo ostacolo che l'accordo del G7 dovrà affrontare sarà conquistare l'appoggio del gruppo di paesi del G20, che si riunirà a Venezia il mese prossimo. Sebbene l'Ocse stimi che le proposte potrebbero generare ulteriori 50-80 miliardi di dollari di entrate fiscali l'anno, la somma effettiva raccolta dipenderà dai dettagli tecnici dell'eventuale accordo globale e potrebbe variare notevolmente.
Due fattori avranno un impatto particolare: il tasso al quale viene fissato l'aliquota minima e se i paesi che la applicano possono riscuoterla dalle entrate generate nei paesi che non l'applicano. Le dimensioni dell’impatto complessivo è particolarmente sensibile su quest'ultimo punto, noto come “miscelazione giurisdizionale” o “integrazione Paese per Paese”. Le Ong hanno criticato l'aliquota globale minima del 15% per essere troppo bassa. Il think-tank britannico Ippr ha affermato che "non sarebbe sufficiente a porre fine alla corsa al ribasso".
Ma Gabriel Zucman, economista dell'Università della California, Berkeley noto per il suo lavoro sui paradisi fiscali, ha twittato che è un accordo "storico, inadeguato e promettente", perché anche se il 15% è troppo basso, non ci sono stati ostacoli al raggiungimento di un tasso più alto. L'aliquota minima "riduce nettamente gli incentivi alle multinazionali per registrare i profitti nei paradisi fiscali", ma ha aggiunto che perché l'aliquota minima possa incidere, "è essenziale che sia applicata paese per paese", poiché le aziende potrebbero altrimenti utilizzare paradisi fiscali altrove per compensare le aliquote superiori al 15%.
I ministri e funzionari che hanno partecipato ai colloqui del G7 hanno voluto sottolineare che l'accordo non significhi che il mondo abbia concordato modifiche sulla tassazione internazionale, e tanto meno che il piano alla fine avrà successo. Lo hanno, invece, presentato come un tentativo ambizioso di imprimere slancio ai colloqui globali.
Questo è stato riconosciuto da altri paesi. Il ministro irlandese delle Finanze Paschal Donohoe si è unito ai ministri del G7 a Londra, sebbene abbia difeso il tasso del 12,5% del suo paese. Dopo aver annunciato la sua adesione ha twittato: "Non vedo l'ora di impegnarmi nelle discussioni dell'Ocse . . . Qualsiasi accordo dovrà soddisfare le esigenze dei paesi piccoli e grandi, sviluppati e in via di sviluppo”. I colloqui globali devono conciliare le priorità contrastanti dei paesi su due elementi, noti come i "pilastri".
Il primo, che è il pilastro più importante per Regno Unito, Francia e Italia, mira a garantire che le imprese più grandi al mondo, in particolare i giganti digitali statunitensi Facebook, Google e Apple, paghino più tasse nei loro paesi anche se sono scarsamente presenti negli Stati Uniti.
Il cancelliere del Regno Unito, Rishi Sunak, ha affermato che l'accordo del G7 garantisce che "le imprese giuste paghino la tassa giusta nei posti giusti", un riferimento al primo pilastro.
Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, invece non ha menzionato questo nelle sue osservazioni preparate, concentrandosi sul secondo pilastro di un'aliquota minima globale di "almeno il 15%, che genererebbe più entrate per il governo federale di Washington.
Il primo pilastro richiede un accordo globale e una legge che deve essere approvata dal Congresso degli Stati Uniti, mentre il secondo pilastro, che secondo le stime dell'Ocse aumenterà ulteriori entrate aggiuntive, può essere attuato unilateralmente, ma funzionerebbe meglio se molti paesi si unissero all'iniziativa.
Il primo pilastro trova la forte opposizione di Washington. Francia, Italia e Regno Unito si rifiutano di abolire le proprie tasse sui servizi digitali fino a quando gli Stati Uniti non avranno approvato la legislazione di riferimento. Il ministro canadese delle finanze, Chrystia Freeland, ha dichiarato dopo l'annuncio dell'accordo del G7 che il suo paese intende andare avanti anche con l'introduzione della tassa sui servizi digitali
Oltre a queste questioni di principio, rimangono senza risposta molte questioni tecniche che potrebbero fare una grande differenza per gli effetti pratici di un eventuale accordo, tra cui quali imprese rientrerebbero nel suo campo di applicazione e come definire la base imponibile.
“Anche se le tariffe principali sono importanti, è probabile che la concorrenza continuerà a livello di base imponibile. Questo potrebbe creare più confusione", ha detto Rita de la Feria, professore di diritto tributario all'Università di Leeds.
Alla domanda come sarà presentato l'accordo ai legislatori statunitensi, Yellen ha detto che "fornirà un livello di certezza alle imprese negli Stati Uniti e a livello globale un contesto stabile in cui operare, contesto che è stato molto instabile". Yellen ha accolto con favore la “rinascita del multilateralismo”.
Alcuni ministri hanno affermato in privato che l'urgenza di concludere un accordo al G7 ha significato voler dimostrare che i paesi ricchi contano ancora, nel tentativo di mostrare al mondo che il XXI secolo non sarà dominato dalle regole stabilite dalla Cina.
i ministri hanno affermato in pubblico e in privato che l'occidente sta cercando di riprendere il controllo dell'agenda globale concludendo accordi in aree politiche controverse dopo quattro anni di amministrazione Trump, quando ciò era impensabile.
Yellen ha affermato: “In questo incontro del G7 ho potuto riscontrare una profonda collaborazione e il desiderio di coordinare e affrontare una serie vastissima di problemi globali ".
Per leggere l'articolo originale: 7 tax deal is ‘starting point’ on road to global reform