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Dal Medio Oriente le notizie dei lavori in corso per un’ulteriore prolungamento della tregua negli attacchi di Israele nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di dieci ostaggi israeliani per ogni giorno di proroga. Tel Aviv sembrerebbe disposta all’accordo, ma solamente per non più di dieci giorni in tutto.
Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme per il quotidiano il Manifesto, raggiunto telefonicamente, ci fa notare che più giorni di tregua ci saranno e più scambi tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi avverranno, minori sono le possibilità che la guerra possa riprendere e che, soprattutto, Israele rilanci una nuova offensiva militare distruttiva come nelle settimane scorse. “Questo perché siamo in presenza di significative pressioni internazionali per portare aiuto alla popolazione palestinese che versa in condizioni spaventose e disumane”, sostiene.
La situazione, ci racconta, “è critica soprattutto in alcune aree, come hanno affermato anche alti dirigenti delle Nazioni unite e dell’Unhcr che portano aiuti nel nord di Gaza, occupato dall’esercito israeliano e dove, contrariamente a quanto sapevamo, gli abitanti sono numerosi, 2 o 300 mila”. Qui da settimane non arriva nemmeno l’acqua, i team dell’Onu hanno trovato la popolazione stremata: “Situazioni di carattere umanitario, queste, che rendono difficile, per chi vuole continuare la guerra, andare avanti”.
Giorgio sottolinea poi un altro fattore: “C’è una forte pressione delle famiglie degli ostaggi e di tutti gli israeliani che hanno a cuore la loro sorte, principalmente quella di bambini, donne anziani. La pressione crescente è innanzitutto sul primo ministro israeliano e sul gabinetto di guerra affinché continuino le trattative per riportare a casa le persone sequestrate il 7 ottobre e contro il piano dei vertici militari e una porzione significativa del mondo politico israeliano che intendono distruggere le infrastrutture di Hamas a Gaza”.
Questo, continua il giornalista, “come riconosciuto anche da una parte delle forze israeliane, non è un obbiettivo completamente raggiungibile, anche perché Hamas è qualcosa di più di una struttura militare, è un movimento politico con forti diramazioni sociali e quindi non facile da sradicare da Gaza. La ripresa degli attacchi non è quindi scontata, ma dobbiamo comunque aspettare giovedì”.
Dal canto suo il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha voluto recarsi personalmente a Gaza per affermare pubblicamente: “Noi andiamo fino in fondo, fino alla vittoria”, con la volontà evidente di mandare alcuni messaggi. Uno di questi è alle sue forze militari: “Netanyahu ha voluto dimostrare il perdurante e completo sostegno agli uomini impiegati nelle operazioni a Gaza – spiega Giorgio – anche per fare fronte ai suoi problemi interni, alla perdita di consenso”.
Il messaggio è perciò diretto anche all’opinione pubblica israeliana “che, secondo i sondaggi, non darà più la maggioranza dei suoi voti al premier quando, dopo la guerra, certamente ci saranno le elezioni. Spera quindi di convincere gli israeliani che lui resta l’opzione politica migliore per il Paese – prosegue il corrispondente de il Manifesto -, soprattutto nella fase successiva il conflitto. Quando la guerra terminerà, si aprirà infatti una fase politica di tensione e attrito tra israeliani e palestinesi e, soprattutto, non si sa quale futuro potrà esserci per Gaza. È difficile prevedere quanto durerà questa crisi”.
Michele Giorgio vive a Gerusalemme chiediamo dunque a lui quale è il clima che si vive nella Città santa anche in termini di quotidianità. “È chiaro che rispetto ai primi giorni seguiti all’attacco di Hamas del 7 ottobre – risponde -, c’è ora una parvenza di vita normale, con le persone che sono tornate ad andare al lavoro e a scuola. Nelle prime settimane c’era un clima assolutamente di guerra non dichiarata da entrambe le parti. Non abbiamo assistito a particolari violenze, più concentrate invece in Cisgiordania, dove i coloni hanno dato luogo a forti episodi di intolleranza. Rimangono, come è ovvio, tutte le divisioni di una città che è popolata principalmente da israeliani di destra e palestinesi conservatori, con i contatti sociali che risentono di una situazione di grande tensione, di diffidenza e di ostilità. Ma già è significativo che non si sia in presenza di scontri aperti”.