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La richiesta di arresto emessa dalla Corte penale internazionale per il primo ministro israeliano Netanyahu, il suo ministro della Difesa e tre leader di Hamas, l’ordine della Corte internazionale di Giustizia rivolto al governo israeliano di fermare immediatamente l’azione militare a Rafah, l’astensione e non il veto degli Stati Uniti sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza per il cessate il fuoco a Gaza, il voto a favore del riconoscimento dello stato di Palestina da parte di 143 stati membri dell’Assemblea delle Nazioni Unite, hanno finalmente messo in campo l’alternativa alla guerra, allo status quo ed all’impunità.
Se aggiungiamo a questa mobilitazione degli organi del sistema delle nazioni Unite l’iniziativa che vede il governo spagnolo come principale promotore di dar corso, insieme a Irlanda e Norvegia, al riconoscimento formale e pieno dello stato di Palestina, ci accorgiamo che siamo di fronte a qualcosa di nuovo, di positivo per porre fine alla guerra, al massacro in corso nella striscia di Gaza e per rimuovere le cause che determinano queste esplosioni continue e crescenti di violenze e di violazioni dei diritti umani, non solo a Gaza, ma anche a Gerusalemme, nelle città e nei villaggi della Cisgiordania. Con ritardo e con limiti dobbiamo però cogliere l’importanza e la forza di queste azioni del sistema Onu e degli stati, per nulla scontate, visti il soggetto chiamato a rispondere, il governo israeliano, e la complessità della “questione mediorientale”.
Queste azioni riaffermano l’esistenza di una giurisdizione internazionale a cui tutti gli stati membri delle Nazioni unite debbono rendere conto, rispondendo così a chi, forse per ignoranza o per giustificare l’ingiustificabile sostegno alla guerra ed al riarmo, vanno in giro a dire che il diritto internazionale è roba inutile o anacronistico. Quando, invece, è la nostra unica ancora di salvezza di fronte alla follia della guerra e delle prepotenze di dittatori, stati e governi.
Il sistema Onu ha battuto un colpo, ora debbono essere gli Stati, i governi a scegliere: se fare spallucce e continuare ad alimentare di armi i propri alleati, nel caso specifico, Israele ed Hamas (non dimentichiamo il ruolo dell’Iran e di altri sostenitori della jihad internazionale), o adempiere ai propri obblighi sottoscritti con l’appartenenza all’Organizzazione delle Nazioni Unite, e dire basta, fermiamo questo gioco al massacro e mettiamo tutte le parti attorno ad un tavolo per ristabilire giustizia e sicurezza per tutti.
La risposta che arriva da Spagna, Irlanda e Norvegia di riconoscere lo stato di Palestina va nella direzione giusta, è encomiabile e coraggiosa. Altri stati la stanno seguendo, ma ancora registriamo resistenze incomprensibili tra gli stati europei, Italia compresa. Assurdo sostenere che il popolo palestinese ha diritto ad avere un proprio Stato come invece riconosciuto agli ebrei con la Risoluzione Onu 181 del 1947, da cui è poi ha preso forma lo stato d’Israele nel 1948, e poi continuare a rinviare questa decisione adducendo che “deve essere parte di un negoziato”.
Se vi è un diritto chi ha il diritto di sospenderlo per decenni e lasciare lo status quo, fatto di vessazioni, occupazione, nuovi insediamenti e di ogni tipo di ostacolo per consentire la creazione dello Stato palestinese? Inoltre, dopo ciò che è accaduto il 7 ottobre scorso e dopo sette mesi di assedio a Gaza, distruzioni, morti con il rischio di una escalation della guerra senza più fine e senza più limiti, come è possibile non cogliere l’attimo per dire basta, fermiamo questa atrocità, rimuoviamo le cause, ripristiniamo uno stato di diritto e di giustizia?
L’azione e le posizioni espresse dagli organi del sistema del diritto internazionale debbono anche essere interpretate come un allarme, una chiamata a tutta la comunità internazionale ad assumere le proprie responsabilità, a fare il proprio dovere, ad agire per gli interessi generali perché la posta in palio è la tenuta del sistema internazionale fondato sulla carta delle Nazioni unite o è il via libera alla guerra globale.
Gli stati debbono rispettare e far rispettare le sentenze degli organi internazionali, come la società civile deve promuovere e creare dal basso le condizioni per la pace, per la convivenza, per la giustizia. Non ha quindi senso soffiare sul fuoco e dividersi schierandosi tra pro-palestinesi o pro-israeliani se non si vuole portare acqua al mulino di chi vuole mantenere questo stato di guerra, di ingiustizia, di occupazione permanente e di chi ha scelto altre strade e si contrappone con la stessa violenza e uso delle armi all’oppressore.
Oggi, come non mai, occorre avere il coraggio di schierarsi per la pace e per la giustizia, come ci insegnano le famiglie delle vittime di decenni di lutti in Palestina ed in Israele, ex-militari israeliani e combattenti palestinesi, che il nemico è chi vuole la guerra, la sconfitta e l’oppressione dell’altro e non la pace e la convivenza. E, attenzione, schierarsi per la pace e per la convivenza, non significa affatto essere equidistanti o moderati o normalizzatori, al contrario, la scelta della nonviolenza e del riconoscimento dei diritti e delle ragioni dell’altro sono le scelte più difficili e più coraggiose. Significa andare oltre e violare il mito della nazione e dell’appartenenza etnica, significa abbattere barriere culturali, politiche e religiose, significa accettare il dialogo e il confronto con l’altro, con le sue ragioni e insieme costruire giustizia, riconciliazione, convivenza, cooperazione, solidarietà, diritti, libertà, sicurezza comune, rispetto.
Questo per tutti noi è un passaggio difficile che per anni abbiamo rinviato, che quando siamo stati chiamati a misurarci con queste situazioni ci siamo divisi o siamo stati timidi o non eravamo abbastanza maturi, per capirne il valore e la portata o condizionati da chi vedeva in queste sollecitazioni e proposte debolezza e tradimento alla causa.
Oggi, abbiamo un’altra occasione, in un contesto ancor più drammatico, con una guerra in corso, con 2,3 milioni di palestinesi sotto assedio, bombardati, affamati, senza vie di fuga, con la popolazione israeliana sotto shock dall’azione militare di Hamas, dalla violenza perpetrata e dagli ostaggi presi, con un crescendo di azioni violente da parte di frange di coloni militarizzati che co incursioni spargono violenza e morte nei villaggi in Cisgiordania, oltre a tutto ciò che già conosciamo come conseguenza di decenni di occupazione che produce solo disperazione e violenza.
Mobilitarsi per esigere il cessate il fuoco immediato, per la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, per l’assistenza e l’aiuto umanitario alla popolazione palestinese di Gaza, per ripristinare il finanziamento all’Unrwa, ci unisce tutti, ed è oggi l’agenda che abbiamo condiviso e sostenuto, e continuiamo a farlo, nelle tante piazze e città italiane ed europee. Ma, dobbiamo anche pensare al day after, a cosa proporre per rimuovere le cause, per far sì che queste tragedie non si ripetano più, ed è per questo che la riflessione e una presa di posizione chiara, oggi, è indispensabile.
È arrivato il momento di riconoscere e ribadire pubblicamente nelle nostre convocazioni e mobilitazioni che esistono due ragioni e non una sola. Dobbiamo avere anche noi il coraggio di fare una scelta chiara e netta che ci distingua da chi vuole cacciar via, distruggere, uccidere, opprimere, umiliare l’altro, per avere dal Mare al Giordano tutta la Palestina originale per sé. Siano questi i coloni ebrei, siano forze politiche o fazioni militari palestinesi o ministri israeliani.
E dobbiamo farlo coinvolgendo palestinesi e israeliani ancora disposti a riconoscere le ragioni dell’altro e disponibili a costruire insieme le relazioni di fiducia indispensabili per ricomporre i cocci. Palestinesi e israeliani, ebrei e palestinesi della diaspora, insieme, con il nostro appoggio, con il sostegno dei movimenti per la pace, la nonviolenza, la cooperazione internazionale, i diritti umani possono diventare una grande forza di influenza e di cambiamento nelle rispettive comunità.
Solo così riusciremo a smontare le accuse di antisemitismo e la criminalizzazione delle mobilitazioni nelle piazze e nelle università, portare l’opinione pubblica dalla nostra parte e costringere Stati e governi a dire basta. Così facendo avremo dato il nostro sostegno e forza all’azione della giustizia e del diritto internazionale contro la guerra, l’ingiustizia e l’impunità.