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Mentre scopriamo che mezzo milione di tamponi per individuare la positività al Coronavirus hanno preso il volo per gli Stati Uniti, mentre in Lombardia ci si chiede perché un’azienda bresciana – che aveva a disposizione materiale utile per affrontare l’emergenza nella regione più colpita – abbia scelto di dirottarlo altrove, proprio in America i numeri di infetti e contagiati iniziano a salire. La linea del presidente Donald Trump è stata ondivaga: inizialmente sprezzante per i Paesi colpiti, fino a definire il Coronavirus una malattia straniera. Con il passare delle settimane, però, i tweet arroganti sono stati sostituiti da retweet di funzionari di governo che davano indicazioni sui sintomi e rassicuravano sul lavoro che i legislatori statunitensi metteranno in campo. È proprio parlando di Donald Trump che Michelle Boyle, componente dell’esecutivo della Seiu - Service Employees International Union e infermiera di lungo corso, inizia a raccontare come il suo Paese stia affrontando quella che ormai è riconosciuta come una pandemia globale.
“Il nostro presidente? Ha aspettato troppo, ha rifiutato di assumersi le proprie responsabilità e ha lasciato che fossero i singoli Stati a farsi avanti. Così si è proceduto in ordine sparso con sensibili differenze tra democratici e conservatori. Prima Trump ha depotenziato il Centro per il controllo delle malattie, poi è tornato a parlarne. Persino sui kit per il test inizialmente ha rifiutato le disposizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Perché? Non ne ho davvero idea. Non ha alcun senso”. È seduta sul divano nella sua casa di Pittsburgh. La rabbia e l’indignazione si percepiscono chiare anche attraverso lo schermo del pc. Così come si avverte il timore che qualcosa di enorme stia per accadere. In ospedale lei non va in corsia da tempo. Il suo compito è sbrigare le pratiche per l’accoglienza. Ma in caso di emergenza sarà obbligata a riprendere il camice e a tornare tra i pazienti. Per ora le indicazioni arrivate dall’ospedale tendono al contenimento. Non hanno registrato alcun caso, ma va evitato l’affollamento, sia dei visitatori che dei pazienti nelle sale d’aspetto. Le figure professionali non essenziali al momento devono restare a casa, pronte a rientrare in gioco quando sarà necessario. Perché una cosa è certa: sarà necessario.
Intanto la vita quotidiana rallenta. I figli di Michelle sono a casa già da giorni. Le scuole a Pittsburgh sono chiuse. Ma l’America, terra dei sogni, può trasformarsi in un incubo se sei tra quei 40 milioni di cittadini che vivono in povertà. E così restano aperte le mense scolastiche per consegnare cibo da asporto a quei ragazzi e a quelle ragazze che altrimenti non avrebbero di che mangiare. “È un problema enorme anche per il nostro sistema sanitario. È noto che non abbiamo un sistema pubblico e universale. Così anche fare i tamponi sarà problematico. Non tutti potranno permettersi un esame che al minimo costa 750 dollari. Vorrà dire che i poveri pagheranno questa pandemia con la vita e chi potrà permetterselo si salverà. Tanto per darvi un’idea di cosa si parla: la mia famiglia è composta da quattro persone ed è una famiglia fortunata perché essendo infermiera e iscritta al sindacato godo di una serie di agevolazioni, ciononostante paghiamo 70 mila dollari di assicurazione sanitaria l’anno, a cui vanno aggiunti 20 dollari per ogni visita medica di base, 40 dollari per ogni visita specialistica e 75 per quelle in emergenza, in detrazione portiamo solo 1.500 dollari. Ma ripeto: il nostro è un caso fortunato”.
La questione economica, quella sanitaria e la qualità del lavoro si intrecciano nella fotografia di un’America che il virus coglie strutturalmente impreparata. “Non abbiamo mascherine a sufficienza – racconta Michelle, sindacalista e infermiera –, quelle che abbiamo non sono adatte a schermarci da questo virus in base a quanto ci viene riferito dagli epidemiologi, non disponiamo di strumentazioni sufficienti, anche solo quelle per garantire la nostra sicurezza di base. Per non parlare dei reparti di terapia intensiva: mancano posti letto, operatori sanitari e medici. È terribilmente frustrante sapere che è stato ed è sempre il profitto a governare il nostro sistema sanitario. È per questo che l’industria sanitaria ha totalmente ignorato le malattie virali: troppo poco proficue, piuttosto va detto che anche ora ci si concentra su grandi acquisizioni e fusioni tra strutture sanitarie, alcune arrivate a costare fino a 50 milioni di dollari come nel caso di quelle portate avanti dall’Upmc, il Centro medico dell’Università di Pittsburgh, con quaranta cliniche sotto il suo ombrello”.
Qual è il conteggio delle vittime negli Stati Uniti? Difficile dirlo. Proprio per il grande ritardo con cui si è intervenuti e per il fatto che i tamponi sono pochi e non accessibili a tutti. Quel che si sa è che sono in rapido aumento, raddoppiate in un solo giorno, tra giovedì e venerdì. Per questo motivo, anche la Grande Mela ha ceduto e ha chiuso tutto tranne i servizi essenziali. Le informazioni scarseggiano. Persino per un’infermiera come Michelle è difficile capire quale procedura verrà adottata nel suo caso: quando tornerà in corsia per l’emergenza? Dovrà vivere in isolamento? Come? Per quanto tempo? Domande che Michelle si pone pensando alla sua famiglia, ai figli ancora adolescenti e ai genitori più avanti con l’età. Michelle, però, ha una speranza e un punto di forza. “Non mi sento sola – spiega –. Far parte di un sindacato rende tollerabile affrontare tutto, persino questo disastro. Prima che entrassi nella mia organizzazione, mi sentivo sempre molto isolata, da quando sono iscritta so che quando ho un problema posso sempre contare sulla presenza di qualcuno che mi sostiene. E non è poco. Spero che quando tutto questo sarà finito, però, il mondo sarà pronto a cambiare, pronto a difendere quei diritti enunciati nella carta universale: l’acqua, la salute, il cibo, il lavoro… Anche perché tutto si tiene assieme. Se i lavoratori non dispongono di giorni di malattia retribuiti, come accade da noi, non possono tutelare la propria salute e quella delle nostre comunità, se il lavoro è esposto al ricatto, se è povero, non garantisce l’accesso a beni primari, se la salute è in mano ai privati il benessere pubblico è maledettamente compromesso”.
Così compromesso che negli Stati Uniti già si moriva soli e indifesi ben prima dell’arrivo del Covid-19. Quando la video-chiamata con Pittsburgh sta per terminare, Michelle si commuove ma resta ferma e racconta della disperazione di una sua amica asmatica rimasta vedova con figli a carico e delle peripezie per ottenere un’assicurazione sanitaria, racconta anche di sua suocera: “Vent’anni fa perse il lavoro, la sua salute era già precaria ma una volta licenziata le fu impossibile trovare un’assicurazione, così non le rimase che aspettare di accedere al programma federale Medicaid. La vedevamo spegnersi un po’ alla volta. Lei cercava di non farci preoccupare. Noi eravamo impotenti. Medicaid non arrivò mai. Un anno prima era con noi, l’anno dopo era morta senza cure a 58 anni. Cosa accadrà adesso? Nessuna garanzia. E ci saranno persone che perderanno tutto, persino la propria casa, pur di potersi curare. Chissà se riusciranno. Quando ci penso mi viene sempre in mente quando nel 2015 partecipai a un’udienza davanti alla Corte Suprema, c’era un bambino di quattro anni a cavalcioni sulle spalle del padre e in mano aveva un cartello: sono salvo grazie a una sanità accessibile. Chissà che fine farà adesso quel bambino?”.