A meno di 24 dall’annuncio dell’accordo con Israele per il cessate il fuoco a Gaza, arriva la notizia che Hamas avrebbe fatto un passo indietro. Solamente poche ore prima l’esercito di Tel Aviv ha effettuato un raid che ha provocato la morte di 81 palestinesi, mentre prosegue l’offensiva israeliana in Cisgiordania. È vero che l’accordo prevede il cessate il fuoco a partire da domenica 19 gennaio, ma quanto sta accadendo dà la misura di quanto questa tregua sia fragile. 

Le ipotetiche tappe

Secondo l’accordo, sul quale però non si ha nessuna certezza, Hamas, in una prima fase di 42 giorni, dovrebbe liberare gradualmente 33 degli ostaggi catturati durante l’operazione terroristica del 7 ottobre 2023, bambini, donne, anziani e malati. Tra questi anche 5 soldatesse israeliane per le quali Tel Aviv libererà 250 prigionieri palestinesi.

A questi ultimi ne dovrebbero seguire, gradualmente, almeno altri mille. Non sarà invece liberato Marwan Barghouti, il leader della prima Intifada condannato a vita e che in molti vedrebbero come il solo capace di guidare il suo popolo in questa fase.

Nella seconda fase dovrebbero poi essere rilasciati tutti i rimanenti ostaggi e le forze militari israeliane ritirarsi quasi completamente dalla Striscia, mentre ai civili palestinesi sarà consentito di tornare nel nord protetti da "accordi di sicurezza" ancora non precisati.

L'Idf dovrebbe rimanere al confine tra Gaza e l'Egitto con una zona cuscinetto di circa 800 metri lungo i confini orientali e settentrionali per poi ritirarsi gradualmente anche dal corridoio di Netzarim. Dovrebbe inoltre riprendere il flusso di aiuti umanitari verso la Striscia, dove la popolazione è ormai allo stremo, con circa 600 camion al giorno delle organizzazioni internazionali.

Questi sarebbero i termini dell’accordo in bilico, sul quale pesa il bilancio degli attacchi a Gaza, con 47 mila morti, 35 mila orfani e la Striscia quasi rasa al suolo. Una “guerra che ha costruito le basi per avere una distruzione dal punto di vista morale proprio del popolo palestinese – afferma Salvatore Marra, coordinatore dell’area internazionale della Cgil -, un popolo che non ha più nulla. Gaza è un non territorio, un non luogo, non c'è più niente, non c'è più infrastruttura pubblica, non ci sono strade, non c'è un aeroporto, non c'è cittadinanza, non ci sono diritti di nessun genere. Tutto è sospeso”.

Ci sono le condizioni per la pace?

Non si può certo parlare di pace, anche “perché la guerra in corso non interessa solamente Gaza – ricorda Marra -. Sappiamo bene che c'è una tregua raggiunta con grande difficoltà con il Libano che regge e un’instabilità diffusa nella regione, con le novità in Siria dove la situazione è complicata e in fieri. La situazione è molto complicata e di disordine a livello globale. Siamo a qualche giorno dall'insediamento di Trump alla Casa Bianca e le notizie che arrivano sono tutt'altro che positive. Basti pensare al fatto che il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America non riesce a escludere l'uso della forza per l’annunciata conquista della Groenlandia o del Canale di Panama”. 

Gaza diventa così “la cartina di tornasole più tragica che abbiamo davanti agli occhi di una situazione di instabilità internazionale” che per Marra “non può che lasciarci preoccupati e ci deve convincere ancora di più a lavorare per una pace multilaterale, perché è solo così che si trovano soluzioni stabili, durature, sostenibili”.

Quindi l'invito al governo italiano e alle istituzioni europee per sostenere lo sforzo per la tregua, senza dimenticare che “le decine di migliaia di morti, la distruzione assoluta di Gaza, divenuto un territorio inabitabile con epidemie e fame, sono un prezzo troppo alto da pagare per questa tregua”.

Una strada lunga

Il coordinatore dell’area internazionale della Cgil parla di tempi molto lunghi, di decenni, prima che la situazione a Gaza e le relazioni fra Palestina e Israele giungano alla condizione necessaria affinché “si possano fare dei veri negoziati per stabilire un rapporto tra i due Stati che sia di convivenza pacifica. Paradossalmente i due popoli sono molto più pronti a una pace che i due governi. Negli ultimi giorni le proteste, anche dolorose, da parte israeliana nei confronti dell'esercito e soprattutto di Netanyahu, del governo di estrema destra, hanno avuto un loro peso”.

“Questa tregua è stata anche forzata da questo clima di grande dolore e di richiesta di un cessate il fuoco e della liberazione degli ostaggi. Ci stiamo però dimenticando della situazione in Cisgiordania e più in generale nell’intero Stato palestinese, una situazione disastrosa“. Ci vorranno tempo e volontà “per costruire le basi per negoziare seriamente un processo di pacificazione fra i due Stati che dovranno necessariamente convivere – conclude – perché non esiste altra soluzione”.