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La maggioranza dei lavoratori americani vuole il sindacato. E ci sono le prove. Sei lavoratori su dieci (il 59 per cento) sono favorevoli alla sindacalizzazione della propria azienda. Lo certifica un recente sondaggio Cnbc/Momentive elaborato sulla base di novemila interviste condotte in tutti gli Stati Uniti e in tutti i settori. Pochi mesi fa un’altra rilevazione, targata Gallup, aveva dato esito analogo: il 71 per cento di sì alle unions, qualcosa di mai visto dagli anni Settanta del secolo scorso a oggi.
Sono numeri da attribuire anche al nuovo vento che soffia da Washington, dove la presidenza di Joe Biden è la più filo-sindacale che gli Usa abbiano mai avuto dai tempi di Jimmy Carter. Eppure il sistema legislativo americano non si sblocca, sindacalizzare un posto di lavoro è ancora una dura battaglia, aziende e corporations hanno mille strumenti per impedirlo e la grande riforma che dovrebbe riportare equità e libertà giace al Congresso da mesi.
Per questo motivo i casi recenti di sindacalizzazione di stabilimenti e locali controllati da imprese superbig hanno colpito l’opinione pubblica. Certo, l’esordio di una union in casa Apple ha fatto scalpore. Da titoli in prima pagina. I 110 dipendenti della filiale di Towson (Maryland) hanno fatto la storia: 65 di loro, quindi la maggioranza necessaria, hanno approvato la formazione di una rappresentanza sindacale. Il voto, trasmesso in diretta sotto la sovrintendenza del National labor relations board (l’agenzia federale del Lavoro) ha sancito la legittimità di AppleCORE (Coalition of Apple retail employees), affiliata alla International association of machinists and aerospace workers (Iam), un sindacato industriale che rappresenta oltre 300mila dipendenti e altrettanti pensionati in diversi settori.
Sostenuti da Biden in persona, che si è detto “orgoglioso” della loro scelta, i lavoratori retail di Apple hanno chiesto più voce in capitolo su un’agenda di temi che va dalle misure contro il coronavirus all'orario e alla retribuzione, dall’equilibrio tra lavoro e vita privata ai benefit commisurati all’anzianità di servizio. Inutile l’aumento minimo elargito dalla casa madre ad aprile (22 dollari l’ora) nel tentativo di disinnescare il voto pro-union.
Adesso la posta in palio nella filiera retail di Apple è alta. Secondo le organizzazioni del lavoro i dipendenti di altri 24 negozi su 270 della catena hanno espresso interesse a sindacalizzarsi. I lavoratori dell’azienda fondata da Steve Jobs seguiranno la strada aperta dagli addetti di Starbucks? È la domanda che in America molti si pongono. Perché, senza dubbio, quanto sta accadendo nei caffè più famosi d’America ha mostrato la strada a chi lavora, e ha spaventato non poco manager abituati a decenni di cultura e pratiche antisindacali.
Tutto è iniziato a dicembre 2021 a Buffalo, quando i baristi votarono a favore del sindacato nel loro Starbucks, il primo su oltre novemila locali della catena ad aprirsi alla rappresentanza. Da allora i numeri non si sono mai fermati. I dipendenti di Starbucks stanno creando sindacati dappertutto negli Usa, nonostante l’aggressiva campagna avversa della compagnia.
Mentre scriviamo, i lavoratori di oltre 300 negozi in 35 Stati hanno presentato istanza di sindacalizzazione, decine di elezioni sono in corso o in arrivo, 171 locali in 30 Stati hanno detto sì al sindacato, e solo 25 lo hanno bocciato. Ma i dati crescono di giorno in giorno: se ne può seguire la mappa aggiornata sul sito di Perfect Union.
Si diceva delle cattive pratiche. Ne sanno qualcosa i dipendenti di uno Starbucks di Ithaca (New York), chiuso due mesi dopo la sindacalizzazione. E ne ha avuto riprova chi ha ascoltato le parole di Howard Schultz, amministratore delegato della compagnia. Intervistato in diretta dal New York Times, il manager ha rifiutato di riconoscere il sindacato come interlocutore, e l’ha definito una “terza parte” la cui presenza metterà in discussione “l’esperienza del cliente”.
Parole che sono costate a Schultz il duro commento di Robert Reich, economista ed ex segretario del Lavoro di Clinton: “Starbucks ha licenziato illegalmente baristi pro-sindacato - ha scritto Reich sul proprio profilo Facebook -, ha minacciato di concedere nuovi benefit solo ai negozi non sindacalizzati e ha persino chiuso un negozio recentemente sindacalizzato. Senza contare il diluvio di propaganda antisindacale e di manager esterni con cui l'azienda ha inondato i negozi”.
Per Reich “è chiaro che questo grave attacco ai sindacati viene direttamente dall'alto, da Howard Schultz in persona. I suoi commenti palesemente antisindacali chiariscono una cosa: Starbucks è terrorizzata da ciò che accade quando i baristi si organizzano. Sfortunatamente per lui, nessun trucco sindacale potrà fermare lo storico movimento che sta attraversando il Paese”.
Altro enorme, e fondamentale, terreno di scontro è Amazon, dove però la sindacalizzazione procede a rilento. Eppure anche il colosso governato da Jeff Bezos ha avuto la sua “Buffalo”. È il magazzino di Staten Island: qui a inizio aprile i lavoratori, a maggioranza su oltre ottomila addetti, hanno detto sì all’ingresso del sindacato. Ma il treno non è partito. A oggi sono solo tre i magazzini in cui si sono tenute elezioni sindacali: un altro sempre a Staten Island, e il famoso sito di Bessemer, dove la battaglia va avanti da più di un anno.
Una situazione molto diversa rispetto ai successi di Starbucks. Perché? Un sindacalista di Bessemer, Isaiah Thomas, ne ha spiegato le cause al Guardian. È sostanzialmente una questione di numeri: coordinare venti o trenta addetti di un caffè non è come raggiungere sei o settemila operatori di un magazzino Amazon. È un altro campo da gioco. È proprio un altro gioco.
Per avviare un comitato organizzativo in Starbucks (primo passo verso l’elezione) bastano cinque o sei dipendenti, mentre in Amazon ce ne ne vogliono almeno cinquanta. Inoltre, come noto, il tasso di turnover in Amazon è altissimo, si viaggia intorno al 150 per cento, il che rende complicato, se non a volte impossibile, raccogliere le migliaia di voti necessari per ottenere un’elezione sindacale (occorre che il 30 per cento della forza lavoro sia a favore).
A questo si aggiunga che le pratiche di dissuasione e controllo di Amazon sono molto più invasive ed efficaci. A Bessemer, denuncia un attivista sindacale, c’erano ben 1.100 telecamere di sorveglianza attive. Così è difficile lottare e organizzarsi. Ed è encomiabile chi continua a provarci.