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Chiamiamolo Daniel anche se non è il suo vero nome. Questo perché il Paese da cui proviene non permette ai suoi cittadini di esprimere liberamente la propria opinione e chi osa farlo, se riconosciuto, rischia grosse conseguenze, sia per sé che per i propri familiari. Ma il suo nome, in fondo, non è importante perché la sua è la storia di tanti uomini e donne provenienti da quella terra e che laggiù hanno ancora la famiglia. Stiamo parlando dell’Afghanistan di cui, circa un anno e mezzo fa, tutti giornali, le TV, e i social parlavano e trasmettevano le immagini di quel che vi stava accadendo in seguito alla decisione americana, dopo più di 20 anni, di lasciare quella terra in mano a chi, per tutto quel tempo, avevano combattuto, ossia i talebani. Poi, passato un po’ di tempo, la notizia ha cominciato a scivolare nelle scalette dei TG e nelle pagine dei giornali, fino a scomparire definitivamente con l’esplosione del conflitto tra Russia e Ucraina. Ma nel frattempo, non è che in Afghanistan le cose siano migliorate, tutt’altro. Semplicemente non se ne parla più. Le frasi retoriche si sono spente, l'indignazione è svanita e quello che succede in Afghanistan non ci riguarda più.
“Nel mio Paese – osserva Daniel – si può dire solo quello che vogliono loro, i talebani. Non è assolutamente possibile, per chi vive qui in occidente o in un qualunque paese minimamente civile, riuscire a immaginare le condizioni di vita a cui sono costretti le donne e gli uomini dell’Afghanistan. A certe cose, se non le vedi con i tuoi occhi, non ci puoi credere. Resta il fatto che chiunque abbia avuto un incarico pubblico negli ultimi vent’anni, ossia praticamente la totalità dei dipendenti, è accusato di essere un collaborazionista degli americani e quindi, nella migliore delle ipotesi, è stato licenziato. Dipende molto dal lavoro che facevi, per esempio se eri sotto l’esercito significa la morte. Qui non si ha idea di quanti ex militari o poliziotti vengono quotidianamente fucilati e di come vivono quelli che ancora non sono stati catturati e i loro familiari”.
La storia di Daniel
Daniel, come tantissimi giovani afghani, ha raggiunto l’Europa che era ancora minorenne. Voleva trovare un lavoro, guadagnare dei soldi per aiutare la sua famiglia. La sua idea era raggiungere Londra ma una volta arrivato in Europa, passando per Russia e Ucraina e poi seguendo la famosa “rotta balcanica”, raggiungendo prima l’Austria e poi l’Italia, non è riuscito a superare la dogana francese venendo respinto due volte. A quel punto, come minore, è stato preso in carico dai servizi sociali del nostro Paese, iniziando subito a lavorare per poi, raggiunta la maggiore età, ottenere un permesso di soggiorno illimitato per motivi lavorativi e, dopo un po’ di spostamenti e tempo, stabilizzarsi e venire a lavorare e vivere a Padova. Qui l’incontro con la Cgil e i suoi valori, in cui si riconosce al punto tale che diventa delegato sindacale. Daniel si è integrato benissimo in Italia (parla correttamente e comprende perfettamente la nostra lingua ed è cresciuto dal punto di vista professionale diventando responsabile di turno dove lavora) e come è normale che sia, pur avendo vissuto ormai più anni in Italia che in Afghanistan, il nostro Daniel non ha mai dimenticato il suo Paese di origine.
In questi anni è tornato periodicamente a trovare i suoi genitori, si è sposato. Ha moglie e tre figli, tutti in tenera età e con il suo lavoro in Italia, provvede al loro mantenimento. Daniel ha iniziato a preoccuparsi seriamente per l'incolumità della sua famiglia quando la coalizione americana ha abbandonato il Paese, a questo si è aggiunta una grave malattia del più piccolo dei suo figli che necessitava di un importante intervento chirurgico. Con la moglie avrebbero voluto portarlo in Italia, purtroppo però i documenti per il ricongiungimento familiare non sono arrivati in tempo e hanno così dovuto ripiegare sul Pakistan dove il piccolo, a settembre, è stato operato con la sola compagnia dello zio, il fratello di Daniel, l’unico che abbia potuto accompagnarlo perché alla moglie, cioè la madre del bambino, non è stato permesso farlo. È l’aberrante legge dei Talebani.
La vicenda
“Nell’estate del 2021 – spiegano all’Ufficio Immigrazione della Cgil Padova – subito dopo la fuga degli americani da Kabul, Daniel ci contattò perché voleva presentare la documentazione per il ricongiungimento familiare con l’intento di portare via dall’Afghanistan moglie e figli perché, con il ritorno dei Talebani al potere, le condizioni di vita per loro, come per il resto della popolazione, erano diventate insostenibili. Naturalmente ci siamo subito attivati ma ben presto ci siamo resi conto che non sarebbe stata una cosa semplice. Innanzitutto, il primo problema è che Daniel ha un permesso di soggiorno illimitato per motivi di lavoro e non per protezione internazionale. I titolari di protezione internazionale infatti beneficiano di una direttiva europea che richiede pochissimi documenti per il rilascio del nullaosta al ricongiungimento familiare e non è necessaria la dimostrazione di redditi e di un alloggio idoneo. Insomma: tutta la procedura è più scorrevole e in discesa. Nel caso di Daniel, la Prefettura di Padova, ossia l’emanazione sul territorio del Ministero degli Interni, pur riconoscendo la situazione particolarmente complicata dei cittadini afghani e velocizzando il più possibile l’iter per il rilascio del nullaosta, non ha potuto però andare in deroga a quanto prevede il Testo Unico in materia, ossia la necessità che il richiedente di ricongiungimento famigliare dotato del permesso di soggiorno per motivi lavorativi dimostri di essere in grado di provvedere economicamente al mantenimento della famiglia e di avere un alloggio che possa dignitosamente ospitarli. Se per l’idoneità reddituale è bastato semplicemente mostrare il contratto di lavoro di Daniel ottenendola subito, la stessa cosa non è stata per l’idoneità alloggiativa, per la quale l’attesa è stata di 7/8 mesi ed è arrivata grazie a un lavoro congiunto e all’intervento della Camera del Lavoro di Padova. Alla fine, la casa in cui Daniel abita è stata dichiarata effettivamente idonea ad accogliere anche sua moglie e i suoi tre bambini. Un’infinità di tempo, passato il quale abbiamo finalmente potuto sbloccare l’iter per ottenere il nullaosta per il ricongiungimento familiare. Una volta ottenuto, Daniel è potuto finalmente partire per l’Afghanistan per fare richiesta di visto per i familiari”. Purtroppo però è stato del tutto inutile.
L’arrivo senza ritorno
“Sono partito con un biglietto aereo di sola andata che ho pagato tremila euro – spiega Daniel – mentre il ritorno non mi è stato possibile farlo perché in Afghanistan puoi più o meno sapere quando arrivi ma non quando lo puoi lasciare perché capita spesso che i voli vengano cancellati. A me, quest’ultima volta, è successo due volte e mi è riuscito di tornare solo al terzo tentativo, pagando altri 1700 euro. Forse il primo problema è che a Kabul non vi è più l’ambasciata italiana (né di altri paesi occidentali) e quindi, al fine di ottenere il nullaosta del Ministero degli Esteri per i miei familiari a lasciare il Paese e venire a stare da me, bisogna necessariamente recarsi o all’ambasciata italiana in Pakistan o a quella che c’è in Iran. Ma è una cosa molto più facile a dirsi che a farsi. Bisogna sapere che da quando ci sono i Talebani è sostanzialmente impossibile, a meno che non si sborsino cifre vertiginose e a pura discrezione loro, ottenere un passaporto. Si possono raggiungere alcuni paesi, come ad esempio il Pakistan, solo attraverso dei visti temporanei il cui costo è passato da circa 50 euro a 600/700 euro. In verità, per ottenere la possibilità di far venire in Italia mia moglie e i bambini dovrei pagare circa 3-4000 euro per ognuno di loro. E dico la possibilità, non la certezza. Perché ammesso e non concesso che riuscissi a ottenere un passaporto, poi avrei bisogno di un visto temporaneo per recarmi in Pakistan all’ambasciata italiana per ottenere il nullaosta all’entrata in Italia dei miei familiari. Ed è lì che si incontra uno scoglio insormontabile”.
Cosa succede nelle ambasciate italiane di Islamabad e Teheran
Questo succede, spiegano all’Ufficio Immigrazione della Cgil di Padova, perché alle ambasciate italiane sia di Teheran che di Islamabad si può accedere solo attraverso, chiamiamole, “agenzie” a cui è stato delegato il compito di filtrare i cittadini stranieri che vi possono entrare e avere un appuntamento. In pratica, si tratta di faccendieri e gente senza scrupoli che permette quello che, almeno per Daniel, sarebbe un diritto dovuto. Succede, ed è incredibile, che tra Ministeri non vi sia nessun tipo di comunicazione diretta perché in mezzo ci sono queste "agenzie": da una parte il Ministero degli Interni, dopo una trafila che abbiamo visto interminabile, dice che Daniel ha il nulla osta per far entrare i suoi familiari in Italia ma invece che comunicarlo direttamente alle ambasciate italiane di Pakistan o Iran, demanda questo compito a Daniel che deve farlo fisicamente, cioè andare là per consegnare questo benedetto nulla osta alle agenzie che lavorano per il MAECI nel Paese. Il guaio è che per entrare in quelle ambasciate bisogna per forza passare attraverso questi "uffici” dove gente senza titoli e nessuna garanzia, dietro compensi arbitrari che si alzano man mano che si avvicina la data di scadenza del visto di entrata, ti “promette” di procurarti un appuntamento in ambasciata. È una situazione di corruzione diffusa che rende impraticabile a chi ha le carte in regola come Daniel, e sono tante e tanti, il ricongiungimento familiare. Sostanzialmente, si costringe la gente ad affidarsi all’illegalità. E indigna perché questo succede agli afghani residenti in Italia e non negli altri Stati Europei. Alle afghane e afghani andati in Belgio o in Germania, sembra non succeda quanto è successo a Daniel, così ci racconta Daniel. In quei paesi i corridoi umanitari funzionano veramente. L’Italia, l’indomani dell’abbandono degli americani, aveva annunciato corridoi umanitari per almeno mille afghani. Ma ci è voluto un anno perché, anche a Padova, arrivassero le prime famiglie; un ritardo assurdo, nell'indifferenza totale.
La cosa peggiore, ritornando alla storia del nostro Daniel, è che dopo tutto quel che ci si è spesi, i suoi familiari sono ancora in Afghanistan. Ed è una situazione, purtroppo, che alla Cgil sanno non essere isolata: hanno la fila di situazioni analoghe. Persone bloccate in Afghanistan, senza speranza. Sono per lo più donne e minori imprigionati in un limbo tremendo da cui non si esce: profughi perseguitati anche negli stati limitrofi di Iran e Pakistan dove ogni giorno diventa più difficile e pericoloso rifugiarsi per scappare dai talebani. Per queste persone non c'è via d'uscita, un'umanità disperata che lotta ogni giorno per sopravvivere.
La triste conclusione (per adesso)
“La triste conclusione, almeno per il momento, è che nonostante tutte le migliaia di euro spesi, il tempo perso e soprattutto il fatto che a Daniel fosse stato riconosciuto il diritto al ricongiungimento familiare ossia aveva avuto il nullaosta dalla Prefettura di Padova, i suoi familiari sono ancora in Afghanistan”. A parlare è Palma Sergio, la segretaria confederale della Cgil di Padova, che fin da subito ha seguito la vicenda, che aggiunge: “Purtroppo questo significa che si dovrà ricominciare tutto da capo. Il nullaosta rilasciato dalla Prefettura è temporaneo ed è scaduto. Quindi bisognerà prima rifarlo, e abbiamo visto quanto sia faticoso, poi Daniel dovrà di nuovo tornare laggiù, in un Paese dove regna il caos e il sopruso sistematico, per cercare sostanzialmente, da solo, di fare quello che gli ha garantito lo Stato italiano, ossia il diritto di portare sua moglie e i suoi tre bambini a vivere con lui qui in Italia”.
“Daniel non sarà lasciato solo – prosegue Palma Sergio – come non saranno lasciate sole le persone che vivono epopee come le sue. La Cgil di Padova insieme al suo Ufficio e Dipartimento immigrazione continuerà a fare tutto quanto è possibile. Nel nostro territorio facciamo rete con altri soggetti che si occupano di immigrazione e di diritti violati, come ad esempio Amnesty Padova che ci confermava ancora ad aprile la situazione che Daniel ha vissuto sulla propria pelle, soprattutto per quanto riguarda l’esborso di soldi, e non pochi, e sul sistema di corruzione diffusa. Il nostro ruolo politico e storico è, di fatto, cercare di migliorare le condizioni di vita delle persone indipendentemente da sesso, religione e area geografica di provenienza”.
“Ma la storia di Daniel non finisce qui – conclude la segretaria confederale della Cgil di Padova - e questa è solo la prima parte di una storia che non si è per niente conclusa. Accanto a questo, non ci stancheremo mai di ricordare che in Afghanistan la situazione è sempre più fuori controllo. Purtroppo un altro effetto nefasto della guerra in Ucraina è aver fatto completamente dimenticare all’opinione pubblica quanto succede in tante altre aree del mondo, a partire dall’Afghanistan. E di come i diritti di chi sia fuggito da quell’inferno e viva in Italia, pur con una storia di integrazione alle spalle come succede a Daniel, non vengano rispettati. Quel che ci è stato riferito su ciò che accade nelle ambasciate italiane di Islamabad e Teheran è incomprensibile, indegno per un Paese civile, viste le difficoltà per il rilascio del visto per motivi familiari. Ci sono stati segnalati pestaggi fuori dell’ambasciata e di faccendieri locali che chiedono soldi per fissare un appuntamento, come è accaduto a Daniel. Occorre un autorevole intervento: chi ha responsabilità politiche, a maggior ragione ora che si è insediato un nuovo Governo, se ne renda conto e agisca di conseguenza. Di fronte a casi come questi non servono analisi politiche o esternazioni che lasciano il tempo che trovano, basterebbe farsi solo una semplice domanda: ‘Vorrei essere trattata/o in questo modo?’”.