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La pandemia colpisce un decimo dei redditi dei lavoratori nel mondo
Financial Times, 24 settembre 2020
L'Organizzazione internazionale del lavoro avverte che per un gran numero di persone che sono uscite dal mercato del lavoro sarà più difficile la ripresa. Secondo l'Ilo, il reddito guadagnato dai lavoratori nel mondo è diminuito di oltre il 10% nei primi nove mesi del 2020 al causa della pandemia del coronavirus, una perdita che supera 3.50 miliardi di dollari. La stima, pari al 5.5% del Pil, è stata calcolata in base al numero di ore lavorative perse dall'inizio della pandemia. Il dato non tiene conto dei programmi di sostegno al reddito o gli aiuti statali utilizzati dai governi per attenuare le conseguenze della perdita di reddito.
Secondo la ricerca dell'Ilo, che è stata pubblicata mercoledì, il calo delle ore lavorative nel secondo trimestre del 2020 è stato ancora più brusco di quanto si pensasse. Il calo è stato del 17,3% rispetto ai livelli precedenti alla pandemia, pari alla perdita di quasi mezzo miliardo di posti di lavoro a tempo pieno. I dati, che comprendono i lavoratori in cassa integrazione e quelli che lavorano a tempo parziale, così come coloro che sono diventati disoccupati o che sono usciti dal mercato del lavoro, dimostrano che la pandemia farà pagare un costo pesantissimo per la spesa dei consumatori e porrà difficoltà alla ripresa economica.
Secondo le stime dell'Ilo, la perdita delle ore lavorative ammonta al 10,7% del reddito da lavoro a livello globale. Anche le previsioni per il resto dell'anno sono più preoccupanti rispetto a quelle stimate in precedenza. Il direttore generale dell'Ilo, Guy Ryder, ha affermato che questo è dovuto in parte alla ripresa dei contagi da Covid-19 in alcune zone del mondo, ma anche al fatto che i lavoratori nei paesi poverissimi, che hanno molte meno probabilità di avere un lavoro regolare o di essere in grado di lavorare da remoto, sono stati colpiti in modo più grave rispetto alle crisi economiche del passato.
L'agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro avverte che la ripresa sarà più difficile per il gran numero di persone che è uscita dalla forza lavoro. L'Ilo ha affermato che l'inattività economica è aumenta nel secondo trimestre più velocemente della disoccupazione registrata in tutti i paesi, ad eccezione degli Stati Uniti e del Canada. Questo comporta delle conseguenze per la politica dei governi, poiché in passato è stato più difficile far rientrare gli inattivi nel mercato del lavoro che trovare lavoro ai disoccupati. Sempre secondo l'Ilo: “È probabile che i tassi di inattività più alti rendano più difficile la ripresa del mercato del lavoro”.
Il coronavirus ha colpito i lavoratori nelle economie emergenti in modo più grave delle precedenti crisi economiche e finanziarie. I lavoratori dei paesi con reddito medio – basso hanno perso il 15% del reddito, mentre i lavoratori nei paesi con reddito alto hanno subito una perdita del 9%. I lavoratori nei paesi più ricchi hanno inoltre maggiori possibilità di beneficiare dei programmi di sostegno al reddito e degli aiuti statali. Il calo a livello globale delle ore di lavoro è stato peggiore senza le massicce misure di stimolo fiscale dei governi.
Tuttavia, le misure di stimolo sono state distribuite in modo non omogeneo. L'Ilo ha calcolato che i paesi con reddito alto hanno avviato misure di stimolo fiscale pari al 10% delle ore lavorative, mentre le misure dei paesi a basso reddito sono state parti solo all'1,2% delle ore lavorative. L'Ilo ha affermato che un'iniezione di 45 miliardi di dollari consentirebbe ai paesi con reddito basso di raggiungere lo stesso rapporto tra le misure di stimolo e di ore lavorative perse realizzato dai paesi con reddito alto. “Basterebbe soltanto l'1% dello sforzo già compiuto dai paesi con reddito alto con le misure di stimolo... Questo può essere fatto e dovrebbe essere fatto”, ha dichiarato Ryder, criticando la “mancanza di unità abbastanza evidente” a livello internazionale, rispetto agli sforzi compiuti dal G20 dopo la crisi finanziaria del 2008.
Leggi la versione originale: Pandemic knocks a tenth off incomes of workers worldwide
L'Onu alla prova della diplomazia a distanza
Le Monde, 23 settembre 2020
Mentre si apre la 75° Assemblea generale delle Nazioni Unite, la pandemia del Covid – 19 infligge un altro colpo al multilateralismo. Come tutti i newyorkesi sanno, è meglio evitare a metà settembre la zona di Turtle Bay, dove si trova la sede delle Nazioni Unite. Di solito, questa è la settimana più attesa dall'agenda diplomatica mondiale, con tutti i capi di Stato che arrivano a New York per l'Assemblea Generale dell'Onu. È un'opportunità per far sentire la propria voce e per negoziare nei corridoi. Gli incontri bilaterali si svolgono all'ultimo minuto, nelle camere d'albergo. La polizia di New York e gli agenti federali sono in stato di allerta e chiudono il quartiere senza fare troppe cerimonie.
Niente di tutto questo accade nel 2020. New York ha impiegato molto tempo per uscire dall'inattività provocata dalla pandemia di Covid-19 e le Nazioni Unite hanno valutato quanto sarebbe stato irragionevole per i diplomatici di 193 Paesi viaggiare in questa situazione sanitaria. E' stato chiesto ai capi di Stato di inviare i loro discorsi preregistrati, e le visite di persona sono state scoraggiate. La pandemia sta mettendo alla prova un multilateralismo già molto indebolito.
Mentre l'organizzazione celebra quest'anno il suo 75° anniversario, i suoi corridoi sono deserti e le sale riunioni ora sono virtuali. Anche il presidente degli Stati Uniti, che vive a mezz'ora d'aereo e che sarebbe stato uno dei soli capi di Stato a non dover giustificare l'esenzione dalla quarantena, si è alla fine tirato indietro: non terrà il suo discorso di persona davanti a un emiciclo di diplomatici a New York, ma sarà proiettato martedì 22 settembre un video preparato in anticipo, come è stato per Xi Jinping, Vladimir Putin o Emmanuel Macron. Un cambio dell'ultimo minuto che ha fatto tirare un sospiro di sollievo all'Onu: a sei settimane dalle elezioni presidenziali, Donald Trump, che si presenta apertamente come il nemico del multilateralismo, avrebbe potuto utilizzare il palco dell'Onu per rivolgersi soprattutto all'elettorato americano.
Sicuramente, “il disimpegno americano dalla scena internazionale è stato avviato nell'era Clinton, per soddisfare una richiesta interna, e l'obiettivo era mirare ad una dirigenza americana più discreta”, ricorda il politologo Rob Malley, presidente del Gruppo di Crisi Internazionale ed ex consigliere di Bill Clinton e di Barak Obama. Siamo andati in un'altra direzione con l'amministrazione Trump. In meno di quattro anni, gli Stati Uniti sono usciti da diversi organismi della galassia Onu: dall'Unesco, dall'accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), dalla missione Onu in Palestina (Unrwa), dal Consiglio per i diritti dell'uomo. Gli Stati Uniti hanno annunciato, in piena pandemia, l'intenzione di ritirarsi dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
“Scelte selettive”
Con il forte intervento di Washington sulla questione del nucleare iraniano, dopo la fine dell'estate, che ha ignorato gli altri 14 Stati membri del Consiglio di Sicurezza, gli osservatori ritengono che l'amministrazione Trump cerchi di calpestare ”lo strumento delle Nazioni Unite”, e di danneggiarlo il più possibile prima delle elezioni. Gli Stati Uniti, dopo aver fallito al Consiglio di Sicurezza con il tentativo di reintrodurre le sanzioni contro l'Iran, hanno deciso, lunedì 21 settembre, di reintrodurle unilateralmente, minacciando di sanzionare chiunque le violasse. Un diplomatico analizza con dispiacere: “Se gli Stati Uniti non rispettano le regole dell'ONU e i tempi per l'applicazione delle sanzioni, nessuno rispetterà alcun sistema di sanzioni”.
Un diplomatico europeo ha osservato:“Il fatto che gli americani siano meno impegnati nell'Onu indebolirà di sicuro le Nazioni Unite. Ma questo riguarda anche i paesi che sono favorevoli alla democrazia, allo Stato di diritto ed al rispetto dei diritti umani. Perché quando c'è il vuoto, si crea uno spazio. E i cinesi non esitano ad occupare uno spazio vuoto”. Alcuni diplomatici occidentali rabbrividiscono all'idea di un modello Onu guidato un giorno da Pechino. Il modo in cui la Cina ha bloccato ogni discussione sulla legge di sicurezza nazionale imposta a Hong Kong, il primo luglio, ha dato un'idea del metodo che utilizza.
“I problemi provengono da alcune grandi potenze che compiono scelte selettive e pensano che non bisogni rispettare gli accordi internazionali a meno che non servano per interessi nazionali in momenti particolari”, afferma l'ambasciatore dell'Unione europea all'Onu, lo svedese Olof Skoog. “Dimenticano che il diritto di veto è una responsabilità, non un privilegio. Rispetto a questa questione, la situazione è degenerata in questi ultimi anni”.
La pandemia di Covid-19 ha messo in evidenza la profonda mancanza di volontà di cooperazione internazionale, un altro difetto del sistema multilaterale delle Nazioni Unite. Anche in questo caso, il duello tra la Cina e l'America è stato il fattore paralizzante. In primavera, la Cina e gli Stati Uniti hanno tenuto in ostaggio il Consiglio di Sicurezza per cento giorni durante la pandemia, quando non sono riusciti a trovare un accordo sui termini di una risoluzione che mirava principalmente a sostenere la richiesta di un cessate il fuoco globale del Segretario generale dell'Onu Antonio Guterres.
La diffusione del virus ha indebolito ulteriormente le comunicazioni a livello diplomatico. L'ambasciatore tedesco dell'Onu Christoph Heusgen afferma: "Gli incontri tramite l'applicazione Zoom non possono sostituire gli incontri di persona, soprattutto quando si tratta di questioni polarizzanti". È lui che ha insistito affinché il Consiglio di Sicurezza riprendesse le riunioni nelle sale a partire da luglio . "Nel Consiglio di sicurezza ci sono molti contrasti, e per questo è necessario mantenere buoni contatti. Qual è l'obiettivo del multilateralismo o del Consiglio di Sicurezza? Trovare soluzioni e compromessi. Cosa difficile quando ci si può confrontare solo attraverso gli schermi”. Ad esempio, ritiene che la soppressione dei punti di accesso per gli aiuti umanitari in Siria, richiesta dalla Russia a luglio, avrebbe forse potuto essere evitata se i negoziati si fossero svolti di persona.
Queste difficoltà minano la credibilità delle Nazioni Unite, così come l'incapacità a svolgere un ruolo decisivo nella prevenzione della crisi, dalla situazione dei siriani alla pulizia etnica dei Rohingya in Birmania o ai campi di internamento degli Uiguri in Cina, anche se le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, l'agenzia per i rifugiati o l'agenzia per lo sviluppo, forniscono un aiuto reale. In occasione del 75° anniversario, l'organizzazione internazionale ha condotto un'indagine su un milione di persone. I risultati dell'indagine sono stati resi noti lunedì 21 settembre: sei persone intervistate su dieci riconoscono all'Onuj il merito di aver contribuito a rendere il mondo un posto migliore, ma l'80% ritiene che l'organizzazione debba essere riformata e resa più efficace.
“Alleanze su dossier”
“Questa è un'occasione d'oro per ripensare il sistema e per ritrovare una leadership”, ha affermato la presidente dell'Assemblea generale dell'Onu dal 2018 al 2019, Maria Espinosa, e firmataria, insieme all'ex segretario generale Ban Ki-moon, della lettera resa nota il 21 settembre, redatta da ex alti dirigenti che chiedono un multilateralismo più forte, un'Onu più potente. “Non c'è bisogno di temere per l'assenza di una leadership americana”, ha affermato Rob Malley. È importante che le alleanze si creino sul singolo dossier, è meno agevole ma è possibile”.
"La pandemia ha evidenziato molti problemi, in diversi paesi e tra un paese e l'altro. Eppure la maggior parte dei capi di Stato ritiene che le Nazioni Unite non siano mai state necessarie come lo sono in questo momento. Ma deve essere un'ONU che sia rilevante e capace di gestire queste sfide globali, che si tratti di Covid-19, del cambiamento climatico o di qualsiasi altra cosa", dice Olof Skoog. A giudicare dal numero impressionante di discorsi che si terranno in questa Assemblea Generale virtuale a partire da martedì 22 settembre, l'interesse è molto reale: tutti i 193 paesi e tre organizzazioni regionali membri dell'ONU hanno inviato discorsi, e ci vorranno cinque giorni e mezzo per diffonderli tutti.
Leggi la versione originale: L’ONU à l’épreuve de la diplomatie à distance
Rapporto: gli spostamenti interni degli sfollati raggiungono i 15 milioni nel 2020, ma il peggio deve ancora arrivare.
The Guardian, 23 settembre 2020
Condizioni meteorologiche estreme, invasioni di cavallette e violenza hanno costretto le persone a fuggire dalle loro case. Secondo una ricerca, milioni di persone sono state sradicate dalle loro case a causa dei conflitti, della violenza e delle calamità naturali nei primi sei mesi di quest'anno. Il Centro per il Monitoraggio degli Spostamenti Interni, situato in Svizzera, ha registrato, tra gennaio e giugno, 15 milioni di spostamenti interni in oltre 120 paesi. Secondo il rapporto pubblicato mercoledì, la grande maggioranza degli spostamenti di 9.8 milioni di sfollati è provocata, tra le altre calamità naturali, dai cicloni, dalle inondazioni, dagli incendi boschivi e dalle invasioni di cavallette.
Il Centro per il Monitoraggio degli Spostamenti Interni ritiene che i conflitti e la violenza, in particolare in Siria, nella Repubblica Democratica del Congo e del Burkina Faso siano responsabili dello spostamento di altri 4.8 milioni di sfollati. Alla fine del 2019, il numero stimato di sfollati costretti a spostarsi all'interno del territorio era di 50.8 milioni. Il rapporto avverte che nei prossimi mesi molti milioni di persone saranno costrette a lasciare le loro case a causa delle condizioni atmosferiche estreme e della violenza in corso.
La direttrice del Centro, Alexandra Bilak, ha affermato: “Il numero impressionante registrato nei primi sei mesi dell'anno testimonia la volatilità persistente delle ondate di sfollati nel mondo”. “A questo si aggiunge la pandemia di Covid-19, che ha ridotto l'accesso all'assistenza sanitaria e accresciuto le difficoltà economiche e i rischi di protezione per le comunità di sfollati”. Il Centro ha osservato che i conflitti e la violenza hanno causato lo spostamento interno di 4.8 milioni di sfollati, soprattutto in Africa e nel Medio Oriente, un altro milione in più rispetto alla prima metà del 2019.
Secondo il rapporto, la ripresa delle attività armate da parte dell'esercito siriano a Idlib nei primi mesi dell'anno ha provocato lo spostamento più importante nel Paese da quando è scoppiata la guerra nel 2011, con circa 1.5 milioni di nuovi sfollati alla fine di giugno. Sono stati registrati, inoltre, 1.4 milioni di sfollati nella Repubblica Democratica del Congo, e altri 419.000 nel Burkina Faso, dove la lotta tra le bande criminali, i jihadisti e le milizie locali ha messo in crisi gran parte della nazione.
Il Centro ha riscontrato che in termini numerici, il Ciclone Amphan ha causato lo spostamento più grande della prima metà del 2020, provocando l'evacuazione preventiva di 3.3 milioni di persone in India e in Bangladesh. Una serie di Paesi dell'Africa orientale ha subito inondazioni gravi e l'invasione di cavallette che hanno destabilizzato ulteriormente la sicurezza alimentare regionale, mentre in Australia, gli incendi boschivi devastanti hanno causato lo sfollamento di decine di migliaia di persone.
Il rapporto sostiene che le persone che vivono nelle aree esposte alle calamità hanno espresso riluttanza a lasciare le loro case per paura di contrarre il Covid-19 nei centri di accoglienza. Jan Egeland, del Consiglio per i Rifugiati in Norvegia, ha avvertito che nei prossimi mesi molti più milioni di persone potrebbero dover affrontare spostamenti con il peggioramento delle condizioni atmosferiche, e i numeri degli sfollati interni rischiano di aumentare in modo significativo entro la fine dell'anno. Ha affermato: “Ci aspettiamo un numero maggiore di sfollati nella seconda metà dell'anno rispetto alla prima metà, perché molti eventi ascrivibili al clima, come le tempeste tropicali e le piogge monsoniche, devono ancora arrivare”.
“È chiaro che molti governi non possono caricarsi da soli del peso di un numero così elevato di sfollati. Non dispongono delle risorse dei paesi più ricchi per garantire reti di sicurezza sociale. Per questa ragione chiediamo un'azione del G20, che sta spendendo trilioni di dollari per le sue economie a sostegno dei più vulnerabili”.
Leggi la versione originale: Internal displacements reach 15m in 2020 with worst 'still to come' – report
La Francia è contraria all'accordo tra l'Unione europea e il Mercosur
Le Monde, 21 settembre 2020
Il governo giustifica il suo rifiuto con la deforestazione che mette in pericolo la biodiversità e danneggia il clima. In nome della lotta al riscaldamento globale, la Francia boccia il progetto di accordo di libero scambio tra l'Unione europea e i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay), che è stato negoziato per vent'anni. Nella mattina di venerdì 18 settembre, il primo ministro, Jean Castex, ha giustificato il rifiuto del progetto con la deforestazione che “mette in pericolo la biodiversità e danneggia il clima”. Una commissione di esperti guidata dall'economista dell'ambiente, Stefan Ambec, gli aveva appena consegnato, poche ore prima, un rapporto descrivendo il progetto come una “occasione persa” in materia ambientale e sanitaria.
In base alle ipotesi avanzate, la deforestazione raggiungerebbe un incremento annuo del 5% nei sei anni successivi all'attuazione dell'accordo, a causa dell'aumento della produzione di carne bovina. In altre parole, il costo ambientale sarebbe superiore ai vantaggi commerciali. In risposta alle critiche della Francia" il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, venerdì ha risposto: “Gli altri paesi che ci criticano non hanno problemi con gli incendi perché hanno già bruciato tutte le loro foreste". Inoltre, la commissione Ambec ha calcolato che questo accordo porterebbe a un aumento di 50.000 tonnellate di esportazioni annuali di carne bovina dal Mercosur al Vecchio Continente, ovvero meno dell'1% della produzione annuale della regione latinoamericana. Il governo francese accoglie le richieste della Federazione Nazionale dei Sindacati degli Agricoltori (Fnsea) che si è opposta a questo trattato in nome della "concorrenza sleale" .
Tre "requisiti politici"
Un consigliere del governo afferma: "Il progetto è morto perché manca di ambizioni ambientali e di norme vincolanti, ma non vogliamo buttare via tutto". Il governo ha avanzato tre 'richieste politiche'. In primo luogo, vuole assicurarsi che "l'accordo non porti ad alcuna deforestazione 'importata' dall'Unione europea" a causa degli scambi commerciali. Spera che gli impegni di questi paesi nei confronti del clima, e in particolare quelli dell'accordo di Parigi, siano giuridicamente vincolanti e chiede, infine, che i controlli doganali e di tracciabilità siano più "frequenti ed efficaci" affinché tutti i prodotti agroalimentari importati rispettino, “ de jure e de facto”, gli standard ambientali e sanitari .
La Francia rafforza la sua posizione con queste richieste. Nell'agosto 2019, durante il vertice del G7 organizzato a Biarritz, Emmanuel Macron si era opposto al trattato con il Mercosur, accusando il presidente brasiliano di aver "mentito" sui suoi impegni in termini di sviluppo sostenibile. Dopo un anno Parigi chiede che gli impegni sul clima siano vincolanti e incisi sul marmo di questo accordo, come tutti gli altri negoziati di Bruxelles. Il governo francese dovrà convincere i suoi partner europei della correttezza di questa analisi.
Il processo di ratifica dell'accordo con il Mercosur non è ancora iniziato, ma il parlamento austriaco e olandese hanno già approvato una mozione che lo respinge nella sua forma attuale. Per la prima volta, il 21 agosto, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso "seri dubbi" sull'accordo, indicando "la continua deforestazione" e gli "incendi". Paesi come la Spagna e il Portogallo, invece lo sostengono. In una riunione informale tenuta a Berlino, domenica 20 e lunedì 21 settembre, i ministri europei del Commercio cercheranno di uniformare le loro posizioni. Inoltre, il consenso dovrebbe essere scientifico. Infatti, mentre la commissione Ambec prevede un aumento delle emissioni di gas serra, una verifica sul controllo dell'impatto ambientale, commissionato da Bruxelles alla British University of the London School of Economics (Lse), è giunto a conclusioni opposte. Altri paesi, come la Svezia e il Belgio, pubblicheranno gli studi sull'impatto ambientale in questo autunno.
Tra vincoli e incentivi
Parigi vuole cogliere l'opportunità per rivedere la dottrina commerciale europea, prevista per l'inizio del 2021, e includere gli aspetti climatici. Il suo cavallo di battaglia è la tassa sul carbonio alle frontiere, destinata a combattere le “fughe di Co2” . Quest'ultima assume la forma di una tassa sulle importazioni alle frontiere europee che include il prezzo sul carbonio nascosto nei prodotti importati. "Il nostro obiettivo non è tassare, ma adeguare il prezzo della Co2 nei nostri scambi commerciali", ha detto uno stretto collaboratore del governo riguardo a questa misura che è stata accusata di protezionismo verde. Ad agosto, Mosca aveva espresso preoccupazioni per le conseguenze sulla sua economia poiché la Russia dipende dalle esportazioni di idrocarburi del vecchio continente.
Infine, rimane da convincere i Paesi del Mercosur a rinegoziare un accordo di libero scambio con questi nuovi requisiti. "Dubito che accetteranno di sedersi di nuovo al tavolo negoziale senza avere nuove richieste", osserva un alto funzionario europeo. Quest'ultimo non nasconde le sue perplessità: "Se iniziamo a voler combattere la deforestazione con un accordo di libero scambio, allora gli accordi di libero scambio non avranno nulla a che fare con il commercio". Con l'indebolimento dell'Organizzazione Mondiale del Commercio e del multilateralismo, gli accordi per il libero scambio tra paesi o regioni hanno svolto un ruolo crescente nell'architettura globale delle transazioni commerciali. Per l'Unione europea, gli accordi sono uno dei pochi strumenti di cui dispone per rafforzare i legami con i partner ed esportare le sue norme e gli standard. "Otteniamo molte cose attraverso il dialogo e la cooperazione senza necessariamente passare attraverso le costrizioni", si spiega a Bruxelles. La Francia vorrebbe raggiungere un migliore equilibrio tra vincoli e incentivi. "Prima avevamo solo la carota, avremmo dovuto avere il bastone e la carota", afferma un consigliere del governo francese. Con queste nuove richieste, l'Unione europea non è mai stata così lontana da un accordo con i paesi del Mercosur. Il Brasile rischia di accusare Bruxelles di ingerenza e di rifiutare, in nome della sua sovranità, le garanzie richieste in materia di deforestazione e biodiversità in Amazzonia.
Leggi la versione originale: La France s’oppose à l’accord entre l’Union européenne et le Mercosur
È la fine dell'era del petrolio? L'energia nel ventunesimo secolo
The Economist, 19 settembre 2020
Il petrolio ha alimentato le auto, le guerre, l'economia e la geopolitica del 20° secolo. Ora il mondo si trova in una crisi energetica che sta accelerando il passaggio ad un nuovo ordine. Da quando il Covid-19 ha colpito l'economia globale all'inizio di quest'anno, la domanda petrolifera è diminuita di oltre un quinto e i prezzi sono crollati. Da allora l'economia è turbolenta, ma è improbabile che si possa pensare di ritornare al vecchio mondo. I produttori di combustibili fossili sono stati obbligati ad affrontare le loro vulnerabilità. ExxonMobil è stata espulsa dall'indice industriale Dow Jones, membro dal 1928. I petrostati, come l'Arabia Saudita ha bisogno di un prezzo del petrolio tra i 70 e gli 80 dollari al barile per pareggiare i bilanci. Oggi si aggira attorno ai 40 dollari al barile.
C'è stato in passato il crollo del petrolio, ma questa volta è diverso. Mentre l'opinione pubblica, i governi e gli investitori si accorgono del cambiamento climatico, l'industria dell'energia pulita sta guadagnando terreno. I mercati dei capitali stanno cambiando: le azioni di energia pulita sono aumentate quest'anno del 45%. Con i tassi di interesse vicini allo zero, i politici sostengono i piani per le infrastrutture ecologiche. Il candidato dei democratici alle presidenziali americane, Joe Biden, intende spendere 2 trilioni di dollari per decarbonizzare l'economia americana. L'Unione europea ha destinato il 30% degli 880 miliardi di dollari del piano per la ripresa economica dal Covid-19 per le misure sul clima, e la sua presidente, Ursula von der Leyen, ha utilizzato, questa settimana, il discorso sullo Stato dell'Unione per confermare che l'Unione europea ridurrà nei prossimi dieci anni le emissioni di gas serra del 55% rispetto ai livelli del 1990.
Il sistema energetico del 21° secolo promette di essere migliore rispetto all'era del petrolio, migliore per la salute umana, più stabile dal punto di vista politico e meno volatile da quello economico. Il cambiamento comporta rischi grandi. Se il cambiamento avverrà in modo disordinato, potrebbe aumentare l'instabilità politica ed economica nei petrostati e concentrare il controllo della catena di fornitura verde in Cina. Se il cambiamento avverrà in modo troppo lento, potrebbe essere persino più pericoloso.
Oggi, i combustibili fossili sono l'ultima fonte dell'85% dell'energia. Ma questo sistema è sporco. L'energia rappresenta i due terzi delle emissioni gas terra; l'inquinamento da combustibili fossili uccide 4 milioni di persone l'anno, la grande maggioranza nelle megalopoli dei paesi emergenti. Inoltre, il petrolio ha creato instabilità politica. Per decenni, i petrostati, come il Venezuela e l'Arabia Saudita, che hanno avuto scarso interesse ad incentivare le loro economie, si sono impantanati nella politica dei sussidi e del clientelismo. Nel tentativo di garantirsi approvvigionamenti sicuri, le potenze mondiali hanno fatto a gara per influenzare questi stati, anche in Medio Oriente, dove l'America ha circa 60.000 soldati. I combustibili fossili sono, inoltre, la causa della volatilità economica. I mercati petroliferi sono colpiti da un cartello irregolare. La concentrazione delle riserve petrolifere nel mondo rendono l'offerta petrolifera vulnerabile alle crisi geopolitiche. Non c'è da stupirsi se il prezzo del petrolio è oscillato di oltre il 30% in sei mesi, 62 volte dal 1970.
Sta emergendo un nuovo quadro del sistema energetico. L'elettricità rinnovabile, come l'energia solare ed eolica, potrebbe passare, grazie ad un'azione coraggiosa, dal 5% dell'offerta al 25% nel 2035, e quasi il 50% entro il 2050. L'uso del petrolio e del carbone diminuirà, anche se il gas naturale più pulito resterà fondamentale. Questa architettura porterà alla fine enormi vantaggi. L'aspetto più importante è che la decarbonizzazione dell'energia eviterà il caos del cambiamento climatico incontrollato, tra siccità devastanti, fame, inondazioni e spostamenti di massa delle persone. Una volta che questa architettura sarà entrata a regime, dovrebbe esserci, inoltre, maggiore stabilità politica, perché l'offerta sarà diversificata, tanto sul piano geografico quanto tecnologico. I petrostati dovranno cercare di auto riformarsi e, mentre i governi inizieranno a dipendere dalla tassazione dei loro cittadini, alcuni stati diventeranno più rappresentativi. I paesi consumatori, che un tempo cercavano la sicurezza energetica interferendo nella politica dei paesi produttori di petrolio, cercheranno di regolamentare in modo sensato la propria industria energetica. Il sistema del ventunesimo secolo dovrebbe essere meno instabile dal punto di vista economico. I prezzi dell'elettricità non saranno decisi da pochi grandi attori, ma dalla concorrenza e dal graduale aumento dell'efficienza.
Eppure, anche quando emerge un sistema energetico migliore, si profila la minaccia di una transizione mal gestita. Si evidenziano due rischi. La Cina autocratica potrebbe temporaneamente acquisire influenza sul sistema energetico globale a causa del suo predominio nella produzione della componentistica fondamentale e nello sviluppo di nuove tecnologie. Oggi, le aziende cinesi producono il 72% dei pannelli solari al mondo, il 69% delle batterie al litio ed il 45% delle turbine eoliche. Inoltre, le aziende cinesi controllano gran parte della raffinazione dei minerali cruciali per l'energia pulita, come il cobalto e il litio. La Repubblica Popolare Cinese potrebbe diventare, non un petrostato, bensì un “elettrostato”. Negli ultimi sei mesi ha annunciato investimenti nel settore infrastrutturale e delle auto elettriche, ha collaudato una centrale nucleare in Pakistan ed ha preso in esame lo stoccaggio di cobalto.
La potenza della Cina dipende dalla velocità con cui si muovono le altre economie. L'Europa è la patria dei grandi sviluppatori di parchi eolici e solari, Orsted, Enel e Iberdrola stanno costruendo progetti di questo tipo nel mondo. Le aziende europee stanno guidando la corsa per la riduzione delle proprie emissioni. La strada dell'America è stata segnata dall'aumento del petrolio e del gas di raffineria, che l'ha resa il più grande produttore di petrolio al mondo, e dalla resistenza dei repubblicani alle misure di decarbonizzazione. Se l'America dovesse agire per contrastare il cambiamento climatico, con una tassa sul carbonio ed una infrastruttura nuova, i mercati di capitale, i laboratori energetici nazionali e le università la renderebbero un'energia verde straordinaria.
L'altro grande rischio è rappresentato dalla transizione dei petrostati, che costituiscono l'8% del Pil mondiale e quasi 900 milioni di cittadini. Con il calo della domanda di petrolio, i petrostati si troveranno ad affrontare una lotta spietata per le quote di mercato che saranno conquistate dai paesi con il greggio più economico e pulito. Anche se si trovano ad affrontare la crescente urgenza di riforme economiche e politiche, le risorse pubbliche per pagare le riforme potrebbero diminuire. Quest'anno le entrate del governo dell'Arabia Saudita sono diminuite del 49% nel secondo trimestre. Si prevedono alcuni decenni di pericolo.
Considerati questi pericoli, la tentazione sarà facilitare il processo assumendo la transizione in modo più graduale. Tuttavia, questo condurrebbe ad una serie di conseguenze climatiche diverse, ancor più destabilizzanti. Invece, come spiega il rapporto speciale in questo numero dell'Economist, gli investimenti proposti sono nettamente inferiori a quanto necessario per mantenere le temperature entro i 2° C dei livelli preindustriali, per non parlare degli 1,5°C necessari per limitare le turbolenze ambientali, economiche e politiche del cambiamento climatico. Ad esempio, gli investimenti annuali nella capacità eolica e solare devono essere di circa 750 miliardi di dollari, il triplo dei livelli recenti. E se lo spostamento verso energie rinnovabili senza combustibili fossili si accelererà, come dovrebbe, causerà ancora più turbolenze geopolitiche. Il passaggio a un nuovo ordine energetico è vitale, ma sarà complicato.
Leggi la versione originale: Is it the end of the oil age? Power in the 21st century