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Al momento, gli effetti della pandemia del Covid-19 sembrano meno devastanti nel continente africano rispetto al resto del mondo. Secondo i dati a oggi disponibili pubblicati dall’Oms (al 14 aprile) solo Egitto e Sudafrica sembrano avere oltre 2 mila contagi, mentre sopra i 500 sono ancora pochi: Algeria, Marocco, Tunisia, Niger, Costa d’Avorio e Camerun. Gli altri Paesi sembrano in questo momento essere tutti sotto ai 500 contagi. Di certo l’epidemia in Africa ha un volto diverso rispetto al resto del globo: un volto molto inquietante, non solo per gli aspetti sanitari, ma anche economici e sociali. L’Africa ha solo il 3% del personale medico in tutto il mondo; ci sono solo 4,5 medici ogni 100 mila abitanti (in Italia sono 376 ogni 100 mila abitanti). Le unità di terapia intensiva in tutto il Kenya sono circa 150, in Senegal 50, in Etiopia 40, in Niger 6. In Malawi ci sono solo 17 posti di terapia intensiva, 10 letti per effettuare la quarantena e un solo ambulatorio dedicato al Covid-19 in tutto il paese.
È forse per questo motivo che la massima parte degli Stati africani, consapevole della pressoché inesistente rete di servizi sanitari (in alcune zone rurali un medico è disponibile solo diversi giorni di viaggio) sono corsi al riparo con misure di contenimento decisamente drastiche. In Africa l’emergenza si abbatte su un sistema sanitario molto fragile che si confronta già con numerose altre minacce come Aids, malaria e morbillo. Il morbillo, in particolare, ha mietuto migliaia di vittime nella Repubblica Democratica del Congo fino a poche settimane fa e nuovi focolai di ebola sono comparsi nella regione orientale settentrionale di Kivu, famosa per i giacimenti minerari fra i più ricchi del mondo di coltan, oro e altro. Alle minacce sanitarie, si aggiungono le altre calamità climatiche e naturali (siccità, alluvioni, locuste etc) oltre ai numerosi Paesi ancora in guerra. A nulla è servito l’appello delle Nazioni unite per una sospensione di ogni attività bellica: in numerosi Paesi africani si continua ad uccidere; in Europa le armi continuano ad essere considerate attività economiche essenziali. Si tratta di un’emergenza sociale ed economica come in tutto il resto del mondo, ma in Africa assume una connotazione particolare perché le persone sono in molti casi costrette a scendere in strada per racimolare quel poco da mangiare per sé e per la propria famiglia.
Il #restaacasa è quindi un privilegio da ricchi che i poveri non possono in alcun modo permettersi. In Sudafrica, non a caso, molte township sono state circondate dall’esercito. Il rischio di rivolte è altissimo e non c’è epidemia che tenga quando ci si confronta con fame e disperazione. Le disparità economiche dell’emergenza coronavirus si sono fatte sentire ovunque, in Africa assumono connotazioni estreme: potersi confinare o no è un vero lusso. Stare a casa, è un lusso, perché una casa bisogna innanzitutto possederla. In Nigeria, uno dei primi paesi toccati dal contagio, portato peraltro nel Paese da un cittadino italiano, sono state prese rapidamente misure molto drastiche. Nel nord del Paese si lotta già contro un’altra epidemia, la “lassa fever”, una febbre emorragica acuta per cui non esiste ancora un vaccino. I confini fra i diversi stati sono stati chiusi e sono state chiuse scuole, università e tutti i mercati all’aperto. La popolazione in Nigeria pare avere capito sin da subito la necessità di adottare misure di igiene più accurate anche in contesti disastrosi come le megalopoli di Lagos e Benin City. Più che in altre parti del mondo, qui pare prevalere la consapevolezza che per salvarsi dal virus l’unica soluzione è l’isolamento, viste le condizioni del sistema sanitario nel Paese.
L’Egitto è stato fra i primi Paesi a registrare casi di contagio e oggi è il secondo per numeri di casi accertati. Come ovunque nel mondo, i numeri veri non si conoscono. Alcuni giorni fa, una giornalista del Guardian è stata espulsa per aver fatto emergere in un suo articolo che in realtà i numeri del contagio sarebbero ben più alti di quanto dichiarato dal governo. Tutti gli aeroporti sono chiusi, salvo per i voli nazionali, nel weekend tutti i negozi sono chiusi ed è stato imposto il coprifuoco di sera dalle 19 alle 6 di mattina. La sanità in Egitto è completamente a pagamento e la percezione della pericolosità del virus pare essere molto bassa, a differenza di quanto accade in molti altri Paesi del continente africano. Il governo pare stia riflettendo all’estensione del coprifuoco all’intera giornata. Il Burkina Faso ha registrato il primo decesso nell’Africa occidentale, peraltro un decesso eccellente, poiché si tratta di una parlamentare abbastanza conosciuta nel Paese. Nel Paese all’inizio è stata considerata una sorta di malattia delle élite che colpisce manager, politici e uomini d’affari che hanno viaggiato in Europa. Anche in questo caso è stata disposta la chiusura totale delle frontiere e di tutti i servizi pubblici e trasporti. Interessante il caso dell’Etiopia, dove al momento il contagio pare essere contenuto e le storiche elezioni previste per agosto sono state posticipate a data da destinarsi. I focolai principali sono concentrati nella capitale Addis Abeba che però pare proprio in questi giorni attrezzarsi per uno screening porta a porta, eseguito da oltre 1.400 fra infermieri e medici in pensione che andranno a somministrare tamponi di massa nei quartieri dove sono stati identificati dei focolai.
Anche il sindacato africano, come nel resto del pianeta, sta cercando di attrezzarsi per fare fronte alla pandemia e proteggere in primo luogo la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori. In un documento pubblicato qualche giorno dalla Csi Africa, l’organizzazione regionale africana della Confederazione sindacale internazionale, si fa il punto sulle misure attuate nel continente e si invita il sindacato africano a prestare la massima attenzione all’evoluzione della pandemia nel continente. La confederazione africana prende atto innanzitutto dei noti problemi strutturali: scarsi servizi pubblici e protezione sociale inadeguata; scarsa igiene e accesso insufficiente all’acqua potabile e all’energia elettrica, cattive condizioni abitative, altissima informalità nel mercato del lavoro e assenza di misure di protezione del reddito. La Csi fa quindi appello alle organizzazioni affiliate affinché facciano pressione sui governi per la dichiarazione dello stato di emergenza in tutti i Paesi, onde evitare che la catastrofe sanitaria si abbatta sul continente. Chiede allo stesso tempo che vengano preservati i diritti umani e in particolare che l’azione delle forze dell’ordine non ecceda mai i limiti consentiti dalla legge e rispetti le libertà individuali.
Il sindacato chiede inoltre ai governi di consentire lo svolgimento del attività lavorative essenziali e che ai lavoratori coinvolti in questi settori vengano forniti i dispositivi di protezione individuale. Il sindacato chiede anche l’utilizzo delle forze del’ordine e di qualsiasi altro corpo anche di volontariato per fare in modo che tutti abbiano accesso al cibo: il rischio che ampie fasce di popolazione rimangano senza è davvero elevato in molto paesi e contesti rurali e urbani. La Csi Africa fa inoltre appello alle istituzioni finanziarie internazionali affinché consentano ai Paesi africani di accedere a diritti speciali di prelievo e di garantire la riduzione del debito, sospendendo i contratti di servizio del debito e di rimborso con i governi africani. Richiesta che proprio ieri è stata accettata dall’Fmi per 77 Stati africani: una boccata d’ossigeno per un continente che ha un disperato bisogno di partire dai servizi essenziali e in alcuni casi di ricostruire da capo a partire dalle macerie lasciate al suolo da guerre, conflitti, ribellioni, traffici di armi e di uomo, campagne di sfruttamento e di sterminio delle risorse umane e materiali da parte di multinazionali spietate e catastrofi naturali sempre più frequenti, dovute al cambiamento climatico. Anche per l’Africa, il post Covid-19 potrebbe costituire un momento di rinascita e ripartenza da quanto per troppo tempo è stato ritenuto secondario e sottovalutato dalla politica – a partire dalla salute, dall’istruzione e dai servizi pubblici essenziali – oppure potrebbe semplicemente costituire una prosecuzione dello status quo con persino un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei più poveri.
Salvatore Marra, Area politiche europee e internazionali Cgil