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Il phase out dalle fonti fossili è la questione cruciale di questa Conferenza, quella che alla fine segnerà il successo o il fallimento della Cop28. Ma ci sono anche altre partite aperte. La finanza è apparentemente il capitolo più positivo, perché è stato reso operativo il Fondo danni e perdite (loss and damage) e sono stati annunciati diversi impegni finanziari.
A oggi: 726 milioni di dollari per il Fondo danni e perdite, 3,5 miliardi di dollari per la ricostruzione del Fondo verde per il clima, 133,5 milioni di dollari per il Fondo di adattamento, 129,3 milioni di dollari per il Fondo paesi meno sviluppati (Ldc), 31 milioni di dollari per il Fondo speciale per il cambiamento climatico (Sccf), 30 miliardi di dollari per il Fondo catalizzatore Alterra per l’azione climatica a livello globale.
C’è l’impegno della Banca mondiale di aumentare di 9 miliardi negli anni 2024 e 2025 i finanziamenti ai progetti legati al clima e l’annuncio delle banche multilaterali di sviluppo (Mdb) di aumentare complessivamente di 22,6 miliardi il loro impegno a favore dell’azione per il clima (dati Climate Action Tracker). Totale: 67 miliardi di dollari circa.
Davvero pochi se paragonati a quanto viene speso ogni anno in spese militari e sussidi alle fonti fossili. Nel 2022 sono stati spesi oltre 1.682 miliardi solo dai primi dieci Paesi con le spese militari più alte. A livello globale, i sussidi per i combustibili fossili, sempre nel 2022, sono stati di 7 mila miliardi di dollari, pari al 7,1% del Pil, 2 mila miliardi in più rispetto al 2020 per i sostegni dei vari governi legati alla crisi dei prezzi energetici, causata dall’aumento dei prezzi del gas.
Adesso c’è da capire se queste risorse saranno spese in modo trasparente; se saranno veramente aggiuntive rispetto agli impegni di cooperazione internazionale assunti dai vari Paesi o solo una partita di giro; se serviranno a realizzare progetti concreti di mitigazione, adattamento e riparazione o saranno deviati su altro.
Va anche capito se saranno coinvolti lavoratori e comunità nella definizione dei progetti pubblici, a tutela dei beni comuni, per il benessere delle popolazioni e della natura o saranno progetti utili solo a fare profitti. Infine, se nel realizzarli saranno rispettati i diritti umani, del lavoro e delle comunità, superati divari di genere, garantita una giusta transizione che non lasci nessuno indietro. Tutto questo al momento non è garantito.
Altro tema è quello della pianificazione, attuazione e finanziamento dell’adattamento al cambiamento climatico, tema cruciale che sta ancora scontando gravi ritardi e contraddizioni. La questione è molto complessa, ma la complessità non può essere una scusa per ritardare i progressi dei negoziati, come purtroppo sta accadendo. Servono regole trasparenti per i piani nazionali di adattamento e per il riconoscimento delle rendicontazioni nazionali, un Obiettivo globale sull’adattamento (Gga) ambizioso e implementabile.
Il capitolo relativo all’adattamento al cambiamento climatico non può essere rinviato. Con un aumento medio della temperatura di 1,1°C, gli effetti della crisi climatica sono già devastanti, come sperimentiamo purtroppo anche in Italia, sia con l’incremento degli eventi alluvionali e di dissesto idrogeologico sia con le ondate di calore e la riduzione delle piogge.
Sono entrambi fenomeni che già stanno provocando nel nostro Paese morti premature, aumento dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, gravi danni all’agricoltura, al turismo e a tutte le attività economiche colpite dalle alluvioni, nonché perdita di posti di lavoro.
Eppure, anche nel nostro Paese sul piano di adattamento al cambiamento climatico si sta perdendo tempo: non è ancora stato adottato e, comunque, il testo non prevede alcun investimento né alcuna misura per garantire la giusta transizione per i lavoratori e le comunità colpite dagli eventi meteo estremi e dall’aumento della temperatura.