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Lavorare nelle estati dell’apocalisse climatica porta nuove minacce alla salute e alla sicurezza di milioni di persone. Sia nelle categorie tradizionalmente a rischio quando la temperatura esplode (agricoltura, costruzioni). Sia in categorie un tempo non messe alla prova ma adesso sì. Perché adesso è un tempo diverso. E il cambiamento climatico deve essere affrontato anche dal punto di vista della salute e sicurezza sul lavoro. Soprattutto seguendo con molta attenzione quelle fasce meno tutelate che rischiano di pagare il prezzo più alto. Ondate di calore e siccità, infatti, sono il nuovo coltello che allarga la ferita della disuguaglianza sociale. Occorrono quindi politiche specifiche. Nuove politiche. Che per ora non si vedono.
Questo, in sintesi, l’allarme lanciato dall’Istituto sindacale europeo (Etui) in un recente rapporto (Heatwaves as an occupational hazard). Il caldo – argomenta l’autrice del rapporto, Claudia Narocki, studiosa spagnola e ricercatrice presso l’Instituto sindical de trabajo, ambiente y salud di Madrid – aggrava “i problemi associati a un'ampia gamma di malattie cardiovascolari, respiratorie e altre patologie acute”. Il calore, però, può avere anche impatti a lungo termine. Ad esempio sul sistema riproduttivo: “Sulla fertilità maschile e femminile, sulla gravidanza e sullo sviluppo fetale”.
Vertigini, mal di testa e crampi muscolari - ricapitola il rapporto - sono i primi sintomi dello stress da calore, che può portare a vomito, perdita di coscienza e decessi se non si interviene. Crescono, inoltre, le evidenze che collegano alcune malattie croniche all’esposizione al calore. In particolare in alcune forme di malattia renale che colpiscono (come rilevato in America centrale e altrove) agricoltori addetti al taglio della canna da zucchero, edili, minatori e portuali.
L'organizzazione mondale della sanità (Oms) stima che le persone lavorino al meglio a una temperatura compresa tra i 16 e i 24 gradi. Quando le temperature superano i 30 gradi, il rischio di incidenti sul lavoro aumenta del 5-7 per cento. Superata la soglia dei 38 gradi, gli incidenti sono tra il 10 e il 15 per cento più probabili.
“Lo stress da calore legato alle condizioni atmosferiche dovrebbe essere considerato un rischio occupazionale” e richiede “un'azione pubblica”, sostiene con forza Narocki, valutando come essenziale un intervento per la protezione dei precari, dei lavoratori privi di forza e rappresentanza sindacale, dei migranti, dei lavoratori a tempo o senza contratto, in subappalto, stagionali, delle finte partite Iva.
“La probabilità di essere esposti a stress da caldo professionale riflette le disuguaglianze sociali preesistenti e allo stesso tempo l'esposizione lavorativa al caldo accentua le disuguaglianze sociali”, rincara la studiosa spagnola. Pensiamo, solo per fare un esempio, ai rider. Nelle nostre città. Ora.
Quegli stessi lavoratori a basso reddito esposti al clima rovente durante le proprie mansioni, lo sono anche prima e dopo. Quando vanno al lavoro, magari a piedi, in autobus o in mezzi privi di aria condizionata. O quando tornano a casa, in abitazioni non climatizzate, in palazzi non isolati termicamente, in aree urbane surriscaldate, le cosiddette isole di calore dove, per la densità edilizia e abitativa, per l’ingorgo di asfalto e cemento e per la scarsità di zone verdi, il caldo immagazzinato durante il giorno non viene smaltito nemmeno durante la notte, causando il fenomeno delle “notti tropicali”, e quindi togliendo sonno e riposo.
Il rapporto ricorda che i luoghi di lavoro potenzialmente esposti alle ondate di calore sono quelli all'aperto: edilizia, agricoltura, allevamento, turismo, addetti alla mobilità e al traffico, servizi di pulizia e giardinaggio, addetti ai bagagli, sicurezza, forze dell’ordine e sorveglianza. Ma anche, quando al chiuso, quelli in cui la fonte di raffreddamento viene solo dall’aria fresca esterna, o dove vi sia prossimità di fonti di calore interne (cucine e locali industriali).
Ma aumenta sempre più il rischio di subire le conseguenze del caldo estremo nelle attività dove i ritmi sono intensificati, ad esempio nella logistica e nei magazzini, e in tutte quelle mansioni che non vengono mai interrotte, nemmeno nelle ore più torride. Infine, la radicalizzazione e l’allungamento delle estati colpisce “edifici, macchine e veicoli non adeguati termicamente”, privi di protezione come le scuole o i mezzi non climatizzati.
Se i rischi associati alle ondate di calore fossero riconosciuti come un pericolo professionale, i fattori di stress da calore potrebbero essere affrontati "e le conseguenze sulla salute” si potrebbero evitare, spiega Narocki. Ma, a fronte di tutto ciò, le linee d’azione per la protezione della popolazione attiva durante le sempre più feroci stagioni di un pianeta surriscaldato sono, a oggi, “poche, se non nulle”.
Sarebbe invece necessario un sistema di monitoraggio specifico. Mentre “i sistemi di monitoraggio epidemiologico esistenti non hanno ancora accertato il peso delle malattie legate ai cambiamenti climatici sulle persone che lavorano”, e “l'impatto preciso del caldo sulla salute dei lavoratori rimane in gran parte non rilevato”. Neppure esiste, a oggi, una “definizione comune e condivisa a livello internazionale di cosa sia un'ondata di calore”.
Nonostante le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo), la salute e la sicurezza sul lavoro non sono ancora incluse nelle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici. È tempo, ammonisce il rapporto, di elaborare una “gestione preventiva”. Le aziende più esposte a rischi “dovrebbero preparare programmi per le ondate di calore con la partecipazione dei lavoratori, consentendo loro di continuare la produzione e allo stesso tempo di garantire la piena protezione della salute”. Occorre definire il prima possibile gli obblighi per i datori di lavoro e per le autorità in materia di rischio da stress climatico.
Per la Confederazione sindacale europea (Ces), "l'Europa ha assolutamente bisogno di una legge sulle temperature massime di lavoro per proteggere i lavoratori dagli effetti del cambiamento climatico". Il sindacato europeo cita un'indagine della Fondazione di Dublino: nell'Unione europea il 23 per cento di tutti i lavoratori è esposto a temperature elevate per almeno un quarto del tempo, percentuale che sale al 36 per cento nell'agricoltura e nell'industria e al 38 per cento nell'edilizia.
Ma da un'indagine condotta tra gli affiliati della Ces "è emerso che solo pochi Paesi europei dispongono di una legislazione per garantire la sicurezza dei lavoratori durante le ondate di calore, con un'ampia variazione dei limiti", denuncia il sindacato che, "nel contesto della crescente crisi climatica", chiede alla Commissione europea di "colmare le lacune nella protezione dei lavoratori con una direttiva sulle temperature massime di lavoro".