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Nelle ultime settimane è circolata sui media una previsione secondo la quale, anche in relazione alla situazione collegata alla pandemia, che vede ormai la Cina in pieno boom economico e l’Occidente ancora in gravi difficoltà, il pil del Paese asiatico dovrebbe superare quello statunitense già nel 2028 rispetto a precedenti stime che lo collocavano abbastanza dopo nel tempo.
Ma quasi nessuno, riportando la notizia, ha ricordato che, se utilizziamo per i calcoli del pil il più realistico (anche se più difficile da stimare) criterio della parità dei poteri di acquisto invece di quello dei prezzi di mercato e facciamo riferimento ai dati della Banca mondiale, il sorpasso è già avvenuto da diversi anni e nel 2019 la Cina da sola controllava ormai il 18,5% del pil mondiale, contro il 16% degli Stati Uniti e il 12% dell’Ue. E il distacco nel 2020 ovviamente si allargherà ancora, visto che il pil cinese crescerà intorno al 2,1% e quello statunitense diminuirà forse del 3% e che presumibilmente anche per il 2021 le previsioni di crescita di quello cinese vanno, secondo le varie fonti, dall’8% al 10% e quelle per gli Stati Uniti dal 3% al 4%.
Intanto, sempre considerando il criterio della parità dei poteri di acquisto, nel 2019 il pil del totale dei Paesi emergenti era pari al 58% di quello mondiale, avendo ormai superato e di molto quello dei Paesi “ricchi”, cui resta quindi nello stesso anno il 42%, con la gran parte della fetta di torta maggiore attribuibile a quelli asiatici, mentre fra qualche anno esso dovrebbe arrivare facilmente sino ai due terzi.
Con un mutamento di rotta epocale, ma di cui c’è colpevolmente scarsa notizia sui media occidentali, il centro economico del mondo si va spostando rapidamente ormai verso l’Asia e, a meno di novità al momento impreviste, questo avverrà anche per le tecnologie e la finanza. Del resto, un simbolo di quello che sta succedendo è indicato dal fatto che un certo numero di Paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud a Taiwan al Vietnam, a Singapore, allo stesso Giappone hanno superato rapidamente ed efficacemente il problema del covid e vanno ora avanti diritti per la loro strada di sviluppo.
Il fallimento delle politiche di Trump verso la Cina
Un problema fondamentale dei nostri anni è che gli Stati Uniti si rifiutano di accettare l’idea che un altro Paese, la Cina, per di più nel caso specifico con una forte presenza dello Stato nell’economia, possa arrivare a raggiungerli e a superarli sul fronte economico, tecnologico, finanziario. E fanno e faranno di tutto (o quasi; speriamo che la guerra sotto qualsiasi forma venga esclusa) per cercare di ostacolare tale passaggio. Così Trump ha, nei suoi quattro anni di governo, provato in molti modi e fortemente a contrastare l’ascesa cinese, con risultati peraltro abbastanza risibili.
Sul piano commerciale, dal momento del suo insediamento alla Casa Bianca sino a oggi, nonostante i dazi e una serie di altre misure introdotti, il deficit con la Cina non è affatto diminuito, anzi in questi ultimi mesi si registra una frenetica corsa agli acquisti di merci cinesi da parte dei cittadini e delle imprese Usa e mancano ormai persino le navi e i container per tenere dietro a tutte le consegne. Più in generale, nel 2020 il surplus commerciale del Paese asiatico con il resto del mondo si è collocato intorno ai 535 miliardi di dollari, mentre le esportazioni sono aumentate del 4% circa rispetto all’anno precedente. Quelle verso gli Stati Uniti sono cresciute dell'8% circa, il doppio della media complessiva.
Anche sul cosiddetto decoupling i successi Usa non sono stati maggiori; in effetti, di imprese statunitensi che hanno deciso di chiudere gli insediamenti in Cina e di ritornare negli Stati Uniti se ne sono viste molto poche, mentre ne stanno arrivando di nuove. Il fatto è che essa sta diventando il primo mercato mondiale per quasi tutte le merci e i servizi, mentre tende a essere anche la più sofisticata fonte di approvvigionamenti e le grandi multinazionali non possono farne a meno. Oggi le sole imprese Usa producono e vendono nel Paese asiatico merci per più di 500 miliardi di dollari all’anno, mentre gli investimenti esteri vi sono ancora aumentati nel 2020 di circa il 6%.
Peraltro, la Cina appare imbattibile anche per quanto riguarda le sue catene di fornitura; i suoi vantaggi competitivi (rapporto qualità/prezzo, livello e rapidità di servizio, capacità produttiva, ecc.) sono troppo importanti per essere facilmente messi da parte. Così è il mercato e insieme la fabbrica del mondo e continuerà a esserlo presumibilmente a lungo, salvo fatti nuovi e imprevisti, che possono peraltro sempre manifestarsi.
Intanto la gara tecnologica vede nel 2020 la spesa cinese per ricerca e sviluppo raggiungere e tendere ormai a superare quella statunitense almeno in valori assoluti, mentre per numero di brevetti depositati e di articoli scientifici pubblicati la Cina si colloca ormai al primo posto nel mondo. Il Paese asiatico sforna circa 5 milioni di laureati in materie scientifiche ogni anno, dieci volte tanto quanto quelli Usa. Il blocco statunitense alla fornitura di tecnologie e alla vendita di certi prodotti cinesi in Occidente sta certamente procurando qualche problema anche importante di breve termine al Paese, ma nel lungo periodo esso ne dovrebbe riuscire rafforzato, spingendo ad accelerare quel processo di autonomia tecnologica peraltro in atto da tempo.
I problemi cinesi e la politica di Biden
Naturalmente l’avanzata cinese non significa che il Paese non abbia i suoi problemi, anche rilevanti, su vari fronti e, per altro verso, certamente la Cina non è il paradiso: tra l’altro, il persistere di forti diseguaglianze, le carenze nel campo delle libertà sindacali e di quelle individuali, le difficoltà apparentemente poste agli Oighuri, sono alcune delle questioni sempre presenti alla memoria. Ciò non toglie che bisogna prendere atto che si va rapidamente costruendo un nuovo e solido centro del mondo, con la base principale nel Paese citato e, per il resto, in una parte almeno dell’Asia e che con tale realtà bisogna fare i conti, non considerandola comunque per principio come ostile e da combattere; solo dalla cooperazione tra Oriente e Occidente potranno uscire politiche migliori per la lotta alla pandemia, per ridurre i problemi ambientali (incidentalmente, ricordiamo che Cina e Stati Uniti sono i due maggiori inquinatori del mondo), per lottare per la pace e contro la povertà e le diseguaglianze. Tanto più che neanche gli Stati Uniti sono esenti da magagne anche gravi.
Ma i primi passi di Biden, mentre sembrano segnare un certo mutamento nei toni rispetto a Trump, non sembrano in ogni caso particolarmente promettenti nella sostanza. Si è così sentito affermare dal nuovo presidente che egli vuole fare di nuovo degli Stati Uniti il Paese guida del mondo e che vuole convocare i Paesi democratici (immaginando una specie di G7 allargato) per decidere insieme come meglio contrastare la Cina, indicando così il persistere di una mentalità da guerra fredda. Ma, in ogni caso, sembra che passare il tempo a combattere la Cina richieda ormai uno sforzo titanico e alla fine plausibilmente improduttivo, togliendo tra l’altro importanti energie alla soluzione dei pressanti problemi interni.