Il caldo estremo uccide, fa ammalare, causa incidenti. Sui luoghi di lavoro si contano ogni anno in tutto il mondo 22,85 milioni di infortuni, 18.970 decessi e 2,09 milioni di anni di vita condotta in piena salute persi. I dati sono del report 2024 dell’Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, e sono il punto di partenza dello studio europeo Adaptheat (Adaptation to heat and climate change at work) che ha esaminato le politiche pubbliche in materia di salute e sicurezza sul lavoro e le esperienze di dialogo sociale e contrattazione collettiva in cinque Paesi: Italia, Grecia, Spagna, Olanda e Ungheria.

Politiche europee insufficienti

Risultato: secondo l’analisi Adattamento al calore, salute e sicurezza sul lavoro e dialogo sociale, realizzata da cinque istituti di ricerca tra cui la Fondazione Di Vittorio, nonostante le ondate di caldo stiano aumentando per frequenza e intensità, le politiche continuano a fornire una risposta insufficiente alle sfide del cambiamento climatico sulla salute dei lavoratori. Queste sono entrate nell’agenda politica, ma solo come problema di salute generale. Infatti, mancano ancora quadri giuridici per proteggere i lavoratori dagli eventi di caldo e non vengono implementate misure di base come la sospensione delle attività durante gli eventi di caldo estremo.

Anni record

Eppure in Europa si continuano a registrare temperature record che raggiungono livelli storici senza precedenti. I tre anni più caldi mai rilevati nel vecchio continente si sono verificati a partire dal 2020, il 2023 è stato il secondo con +1,02°C-1,12°C sopra la media. L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu), ha previsto che ci sono molte probabilità di superare la soglia di 1,5°C di riscaldamento globale stabilita negli accordi internazionali prima della fine del decennio.

La questione è quindi molto seria, se per ogni incremento di 1°C della temperatura al di sopra dei valori di riferimento aumenta dell’1% il rischio complessivo di infortuni sul lavoro e del 17,4 durante le ondate di calore.

A che punto siamo in Italia?

“In Italia abbiamo fatto alcuni passi in avanti ma dobbiamo registrare ancora diverse mancanze – sostiene Daniele Di Nunzio, responsabile area ricerca della Fondazione Di Vittorio, che partecipa al progetto insieme alla spagnola Fondazione Primero de Mayo, l'Istituto ellenico per la salute e la sicurezza sul lavoro per la Grecia, la Libera università di Amsterdam per i Paesi Bassi e il sindacato ungherese Magyar Szakszervezeti Szövetség –. Abbiamo un portale nazionale gestito da Cnr, Inail e Asl sulle ondate di calore, che consente di avere un monitoraggio della situazione delle temperature, alcune regioni e città hanno emesso linee di indirizzo e ordinanze, come Puglia, Calabria, Toscana, Friuli Venezia Giulia, poi sono stati siglati protocolli a livello territoriale dalle parti sociali, specie in agricoltura. A Nardò per esempio, ci si è arrivati dopo le proteste e gli scioperi contro il caporalato e le condizioni di lavoro e le pressioni del sindacato”.

Punti critici

La strada da percorrere è però ancora lunga e ci sono tanti aspetti critici, che sono stati illustrati nel corso della presentazione della ricerca Adaptheat. Innanzitutto non esiste una strategia nazionale complessiva con indicazioni chiare su come gestire il caldo estremo, a partire dalla fissazione della soglia limite oltre la quale scatta l’obbligo di non lavorare.

“Poi è necessario rafforzare la cassa integrazione perché sospendere le attività significa avere un costo per i lavoratori e per le imprese – aggiunge Di Nunzio –. E anche quando si danno più pause occorre riorganizzare i turni senza allungare l’orario. Inoltre bisogna introdurre innovazione negli edifici come scuole e magazzini e non solo: efficientamento energetico, impianti di condizionamento, dispositivi di protezione individuale come scarpe e magliette adatte. Tutto questo ha un costo”.

Tania Castro/Fundación 1 Mayo

Partecipazione del lavoratore

Il clima si può prevedere a livello provinciale, ma poi, fanno presente i ricercatori, ci devono essere sistemi di partecipazione aziendale con il coinvolgimento dei lavoratori per il monitoraggio e il controllo, perché è lì che si misura se la temperatura supera una certa soglia. Braccianti, operai edili, magazzinieri, rider, autisti, chi lavora nelle cucine dei ristoranti, sulle spiagge, nelle scuole, nelle fabbriche vicino ai macchinari, al chiuso come all’aperto. Sono tanti i settori interessati e altrettante le figure che possono essere vittime di infortuni quando si verificano le ondate di calore.

Senza regolamentazione nazionale

“Rispetto ai Paesi più caldi coinvolti nel progetto, Spagna e Grecia, noi abbiamo sviluppato tantissime pratiche di eccellenza a livello locale, linee guida e indicazioni – dice ancora il ricercatore della Fondazione Di Vittorio –. Ma siamo indietro sulla regolamentazione. Oltre le indicazioni generiche contenute nel testo unico 81/2008 e il decreto legge ministeriale del luglio scorso, che è vago e prevede una cassa integrazione senza però stanziamenti aggiuntivi, non c’è niente. Anche sul fronte dei controlli e delle ispezioni, il personale è troppo esiguo rispetto alle necessità”.

“Con questo progetto abbiamo voluto affrontare la just transition, la giusta transizione – conclude Di Nunzio –. Dobbiamo ridurre l’inquinamento, cambiare modello di sviluppo ma anche affrontare un problema urgente e concreto che c’è oggi, domani, questa estate. Vanno bene i piani quinquennali ma i lavoratori che cosa faranno questa estate sul litorale, nei campi, nei capannoni?”.