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Contro l’arroganza, le falsità, la violenza disseminata tra la gente, i blocchi stradali per impedire il voto dai quartieri popolari, alla fine Lula e il Brasile democratico e popolare ce l’hanno fatta. Lula è tornato con la sua carica travolgente. Lula ha iniziato lunga marcia di quella che è stata definita la più combattuta e decisiva campagna elettorale dal ritorno alla democrazia a oggi, da San Bernardo, dal luogo dove tutto cominciò, quando un giovane metalmeccanico diede vita a una delle storie più affascinanti dell’America Latina, dalla fabbrica al sindacato, dalle lotte per la libertà sindacale, il salario, la contrattazione collettiva, alla lotta politica per la democrazia, per una società inclusiva e giusta, dove ogni persona potesse avere i “tre pasti al giorno”, educazione e salute, senza discriminazione se nero, indigeno o donna, fino a conquistare per la terza volta la presidenza della più grande democrazia dell’America latina.
È stato necessario il secondo turno e il risultato è stato in bilico fino alle ultime battute. L’affluenza alle urne è stata di poco superiore a quella del primo turno, 79,41%, confermando quanto sia stata vissuta con trepidazione questa elezione. Rispetto al primo turno Bolsonaro ha aumento i propri voti di oltre 7 milioni, mentre Lula di 3 milioni, sufficienti per raggiungere il 50,90% dei consenti contro il 49,10% di Bolsonaro, uno scarto di circa 2 milioni di voti, su di un totale di 118 milioni di voti validi.
Il voto finale rappresenta un Brasile polarizzato, a macchia di leopardo in gran parte del paese. Mentre nelle grandi regioni del nord est, dove si concentrano le grandi sacche di povertà e di popolazione afro-discendente e comunità indigene, hanno confermato il loro sostegno al progetto politico di Lula, come pure negli stati dell’interno del Brasile. Negli stati più industrializzati e più ricchi, da San Paolo, a Rio de Janeiro, Minas Gerais, Rio Grande do Sul ha prevalso il voto per Bolsonaro. Ne esce una rappresentazione di un paese diviso, spaccato in due, dove la classe dominante, con radici profonde nella storia dell’America latina, ha saldato l’alleanza con il bolsonarismo, fenomeno politico, sociale e culturale dell’ultima ora. Perché, solo così si spiega come un presidente tanto screditato per la sua incapacità di governare quanto estraneo all’elite brasiliana, sia stato in grado di ottenere un risultato così importante in queste elezioni.
Il bolsonarismo ha messo le radici e parla con il linguaggio messianico tanto caro alle chiese evangeliche di queste latitudini. È la versione locale del populismo negazionista, supremazista, violento, omofobo. È funzionale e si presta a consolidare il modello economico neo-liberista e della destra conservatrice che in assenza di alternative migliori, si serve di questi personaggi, come di magistrati e giudici corrotti e del controllo dei media per condizionare l’opinione pubblica e l’elettorato. Il tutto in funzione della protezione e conservazione di un potere che concentra ricchezza e crea diseguaglianze come in pochi stati al mondo e procede a tambur battente alla distruzione del pianeta, disboscando l’Amazzonia e saccheggiando le ricchezze minerarie come ha descritto il grande scrittore uruguayano Edoardo Galeano nel suo libro Le vene aperte dell’America.
Oggi è festa per Lula, per il Brasile democratico, per i milioni di diseredati e senza terra che riprendono a sperare in un futuro migliore, ma Lula sa cosa lo aspetta, quali sfide dovrà affrontare e ostacoli superare per rispondere alle aspettative di o povo, del popolo che lo ha eletto per la terza volta e di chi in America Latina vede nel Brasile di Lula la ripresa di una nuova stagione di riscatto, di integrazione regionale e di protagonismo internazionale.
Sergio Bassoli, area internazionale ed europea Cgil