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1973–2023, mezzo secolo da quel maledetto 11 settembre che distrusse il sogno di un Cile di tutti, padrone delle proprie miniere e pronto a fare i conti con le popolazioni indigene, in particolare con i mapuche, restituendo terra e riconoscendo pieni diritti di cittadinanza ai popoli originari.
Tanto immenso era quel progetto, quanto devastante è stata la reazione delle oligarchie, per distruggerlo e dare l’esempio a chi, in America latina, pensasse mai di cambiare la struttura del potere politico, economico e sociale. Il Plan Condor non fu altro che lo strumento operativo, ideato in Cile e consegnato ai vertici militari di Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay, Bolivia, con il coordinamento della Cia e il sostegno economico delle oligarchie locali per fare piazza pulita, eliminando fisicamente tutti coloro che rappresentavano un pericolo; sindacalisti, studenti, movimenti e partiti politici, leader indigeni, risultato: quattro milioni di esiliati in Paesi limitrofi, 50.000 omicidi, almeno 30.000 desaparecidos, 400.000 imprigionati e 3.000 bambini assassinati o scomparsi.
L’implementazione del modello neo-liberale, fu invece lo strumento economico, prima sperimentato e poi replicato, dalle dittature militari e dai governi seguenti, confermando quello che viene definito “il patto civico-militare” che ha sostenuto i vari colpi di stato degli anni '70-80 del secolo scorso. Privatizzazioni, concessioni estrattive alle grandi imprese transazionali, politiche repressive e riduzione delle libertà e dei diritti, discriminazioni e razzismo, eliminazione dei corpi intermedi, in particolare dei sindacati indipendenti, clientelismo e corruzione, indebitamento pubblico.
Il caso del Cile, è emblematico. Nell’ottobre del 1988, dopo 15 anni di dittatura, i militari consentirono la realizzazione di un referendum dove si chiedeva un ulteriore mandato a Pinochet, e accettarono la vittoria del No che diede fine della dittatura ma posero le condizioni per mantenere il modello economico inalterato, blindando la costituzione e le istituzioni cilene. Coma a dire: “il lavoro sporco è finito….”. Non serve più usare il bastone (terrore, dittatura, repressione e violenza), si può proseguire con un sistema democratico limitato, controllato. Di fatto, il ritorno alla democrazia non ha creato sussulti per trent’anni; l’ex-dittatore è morto nel suo letto, il Pil è sempre stato in crescita, i mercati hanno confermato la fiducia nel Paese, mentre salute, scuola, acqua, miniere, pensioni hanno proseguito il corso delle privatizzazioni e della concentrazione della ricchezza, i sindacati sono stati tollerati ma diritti e libertà sindacale sono rimasti fuori dall’agenda politica, infine le oligarchie e una nuova classe di professionisti, dirigenti, imprenditori si sono consolidate a scapito della maggioranza della popolazione rimasta in sofferenza, povera e discriminata. Neppure il percorso della “verità e giustizia” è stato affrontato, se non in minima parte, lasciando aperta la ferita della violenza subita e dell’impunità per i responsabili. La transizione alla democrazia avviata con il plebiscito del 1988 non è ancora terminata.
È stata la generazione che non ha conosciuto la dittatura a far esplodere la protesta, nel 2018, con quello che è stato chiamato “l’estallido”, l’esplosione, giovani stanchi di essere esclusi e condannati a vivere in povertà, impossibilitati a frequentare le università o a proseguire gli studi, movimenti di donne stanche di non avere accesso ai propri diritti, hanno fatto esplodere gli equilibri ed hanno messo il paese di fronte a un bivio: repressione o dialogo, ma basta status quo.
Repressione c’è stata nelle strade e nelle piazze, ma ha vinto il Cile democratico e si è aperta una fase di democrazia dal basso, imprevista, imprevedibile, un tumulto sociale nonviolento che ha travolto il paese e le istituzioni, fino a far dimettere il Presidente Piñera, non uno qualsiasi, ma un politico e impresario rappresentativo di quell’oligarchia cilena, conservatrice e garante del patto civico-militare che ha gestito il paese durante il periodo della dittatura militare.
Tutto il mondo riprese a seguire il Cile, schierandosi per quelle strade e piazze piene di gente, donne, uomini di ogni età che si riprendevano il loro paese, cantando, ballando, sfidando le istituzioni fino alla loro resa. Come non rivedere in questo movimento il ritorno del sogno di un Cile per tutti, resuscitato dopo mezzo secolo? Nasce così la costituente per archiviare la costituzione del 1980, con il marchio della dittatura. A colpi di referendum si insedia una assemblea costituente popolare dove i partiti non sono più egemonici. Una donna, mapuche è eletta presidente della costituente, uno schiaffo a quel Cile razzista e machista che non ha bisogno di nascondersi. Arriva il tempo delle elezioni e la destra è sconfitta, come sono sconfitti i partiti tradizionali di centro e della sinistra. Il nuovo presidente del Cile è uno di quei giovani che non hanno conosciuto la dittatura, espressione delle lotte studentesche e dei movimenti popolari. Sembra essere il trionfo del cambiamento, della fine di quella lunga transizione per la democrazia che ancora non è riuscita a recidere le radici e i legacci della dittatura. Ma così non è.
La destra si è organizzata, iniziano le campagne diffamatorie e di falsità per spaventare la popolazione. Entra in gioco una nuova destra radicale, xenofoba, razzista che fa leva sulla paura, sulla campagna d’odio. Gli stessi partiti della concertación accusati dai movimenti popolari, di non aver realizzato le riforme e di aver mantenuto lo stesso modello economico e sociale ereditato dalla dittatura, prima messi all’angolo e subordinati a quella forte turbolenza sociale, riprendono a tessere la loro trama di relazioni dentro i palazzi della politica per riprendersi il ruolo e lo spazio temporaneamente perso.
Tanto è che il risultato del voto del referendum per approvare la nuova Costituzione, costruita dal basso e in modo partecipativo, è uno shock: vince il No, la maggioranza dei cileni rifiuta il nuovo testo costituzionale. Com’è stato possibile che l’umore della popolazione sia cambiato radicalmente, passando da una maggioranza schiacciante a favore del movimento popolare e della voglia di cambiamento, di un nuovo patto sociale, inclusivo, democratico, di riconciliazione nazionale ?
Paura di un salto nel buio. Sì, perché, di fronte a una campagna aggressiva e diffamatoria delle destre contro le leader e i leader dei movimenti popolari, le false notizie (toglieranno la proprietà privata, perderete la casa...), la ritrosità e freddezza dei partiti storici del centro e della sinistra che, in fondo in fondo, hanno preferito rimettere in gioco la partita dentro il parlamento, senza legittimare la piazza e rischiare di essere travolti da un processo di cambiamento che non li avrebbe visti protagonisti, ha fatto sì che iniziasse un nuovo corso di normalizzazione delle relazioni dentro un quadro istituzionale.
Ovviamente, questo primo risultato negativo ha indebolito l’autorevolezza e la capacità d’azione del nuovo governo del presidente Boric, espressione dell’onda popolare dell’estallido e, va detto, del voto contro il candidato dell’estrema destra. Il governo popolare ha dovuto fare i conti con l’inesperienza della sua squadra, costretto a cambiare ripetutamente ministri e mediare con i poteri forti, ma dopo la bocciatura della nuova costituzione ha dovuto riprendere in mano il processo costituente con il parlamento e con i partiti, lasciando ai margini la rappresentanza sociale, i movimenti che generando la crisi del sistema avevano reso possibile la sua stessa vittoria elettorale.
La sconfitta del referendum per la nuova Costituzione ha anche provocato la resa dei conti dentro i vari ambienti popolari tra chi avrebbe voluto rifiutare il dialogo con lo stato e chi invece si era speso per costruire una proposta di mediazione e di dialogo con le istituzioni, ma con piena partecipazione e inserendo le domande e le rivendicazioni delle donne, dei sindacati, delle popolazioni indigene, degli studenti, dei pensionati. Un terremoto ancora in corso, che rischia di produrre nuove fratture, divisioni e nuove radicalizzazioni.
A questo punto la domanda è: chi rappresenta e chi sostiene il governo Boric? A due anni e mezzo dalle prossime elezioni presidenziali cosa è in grado di fare il governo per non consegnare di nuovo il Paese a una destra radicale che non perde occasione per riaffermare il suo legame con le ragioni del golpe e con l’urgenza di riportare il Paese all’ordine e alla sicurezza nazionale?
Il processo costituente ora è nelle mani di una nuova assemblea la cui maggioranza è passata alla destra, con una presenza delle rappresentanze sociali e popolari minoritaria e scarsamente incisiva. Il nuovo testo che uscirà dal lavoro di questa assemblea dovrà essere sottoposto al referendum popolare, e in caso di approvazione, sostituirà la vecchia Costituzione, mentre, in caso di rifiuto, il processo si chiuderà con la conferma della vecchia Costituzione pinochettista.
In altre parole, siamo di fronte a due ipotesi: votare a favore di un testo che rappresenta e legittima l’idea di società delle destre e dell’establishment politico, o rifiutare, e tornare alla Costituzione ereditata dalla dittatura.
Mentre per la Costituzione la situazione sembra essere di fronte a una partita persa, per l’appuntamento elettorale, tutto dipenderà dai prossimi due anni, da come reagiranno le forze sociali, sindacati, movimenti popolari, partiti della sinistra e della vecchia concertación. Se sapranno ricostruire una unità d’azione e di sostegno all’attuale governo, se il governo praticherà con determinazione dialogo sociale e capacità operativa, generando risposte alle tante domande di giustizia sociale e ricostruendo quel legame con i movimenti popolari e con la maggioranza silenziosa che ha reso possibile e riaperto la speranza per un Cile di tutti e di tutte.
Oppure, siamo di fronte allo sacco-matto della democrazia in Cile?