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“Il 4 settembre 1970 - si legge sul sito della enciclopedia Treccani - all’apice della guerra fredda, fu scritta una pagina senza precedenti nella storia della sinistra mondiale: per la prima volta, in un Paese del Terzo Mondo lontano ma con una solida democrazia, un candidato marxista sostenuto da una coalizione di sinistra - Unità Popolare - il cui asse centrale era costituito dai partiti socialisti e comunisti, trionfò alle elezioni presidenziali”.
Arrivato al potere con il 36% dei suffragi (era la quarta volta che Allende partecipava come candidato: lo aveva fatto nel 1952, nel 1958 e nel 1964) e sostenuto da una coalizione che annoverava al suo interno accanto ai partiti d’orientamento marxista come il suo i cattolici di sinistra e i radicali, una volta insediato il governo di Unidad popular, Allende comincerà a implementare la sua piattaforma di conversione socialista della società cilena avviando un vasto programma di nazionalizzazione delle principali industrie private del Paese.
Nel 1973 lo Stato arriverà a controllare il 90% delle miniere, l’85% delle banche, l’84% delle imprese edili, l’80% delle grandi industrie, il 75% delle aziende agricole e il 52% delle imprese medio-piccole. La riforma agraria in favore delle classi maggiormente disagiate sarà affiancata da una tassazione sulle plusvalenze, annunciando inoltre il governo una sospensione del pagamento del debito estero e la ferma volontà di non onorare i crediti dei potentati economici e dei governi stranieri (la piattaforma di conversione prevedeva tra l’altro l’introduzione del divorzio e l’annullamento delle sovvenzioni statali alle scuole private, incentivi all’alfabetizzazione, l’aumento programmatico dei salari, l’implementazione di diverse tutele sociali come, ad esempio, l’estensione dei diritti di tutela e rappresentanza sindacali anche alle categorie dei lavoratori stagionali e part-time e l’introduzione di un salario minimo garantito per i lavoratori di ogni categoria e fascia d’età, il prezzo fisso del pane, la riduzione del prezzo degli affitti, la distribuzione gratuita di cibo ai cittadini più indigenti, l’aumento delle pensioni minime).
Dopo mesi di tensioni e tentativi di restaurazione caduti nel vuoto, l’11 settembre 1973 le forze armate cilene guidate dal generale Augusto Pinochet mettono in atto il piano del golpe contro il governo democraticamente eletto del presidente (“Non vedo alcuna ragione per cui a un paese dovrebbe essere permesso di diventare marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile - dirà Henry Kissinger, segretario di Stato americano - La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”).
Lo stesso terribile giorno Salvador Allende muore (che si sia suicidato o che sia morto combattendo contro i golpisti, come racconta Gabriel Garcìa Marquez poco importa) e con lui scompare un esperimento politico senza precedenti. Sebbene perfettamente cosciente che il colpo di stato sarebbe andato a buon fine, il presidente continuerà fino alla fine a dare indicazioni ai suoi sostenitori legittimando con la sua coraggiosa azione la futura resistenza cilena.
“Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più - dirà al suo popolo - Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Perlomeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale con la Patria. Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi. Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende d'imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento”.
La storia gli darà ragione, ma perché il regime finisca il Cile dovrà attende diciassette lunghi anni fatti di violenze, abusi, brutali omicidi di stato, prigionieri politici e desaparecidos (la revisione finale delle conclusioni della Commissione Valech porterà a oltre 40.000 il numero delle vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990. Il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3216 mentre quello delle persone che hanno subito detenzione politica e/o tortura è di 38.254). Anni che si concluderanno solo l’11 marzo 1990, quando Pinochet, sconfitto dal voto popolare, si dimetterà e il Paese lentamente tornerà a respirare.
“È tornato a essere quel che era qualche mese prima del golpe - scriveva quel giorno l’Unità - (…) nonostante i diversi intenti di rimanere nella memoria dei cileni come un padre burbero, ma in fondo buono, egli è - e resta - un dittatore sconfitto”.
Un dittatore sconfitto che però, nonostante la volontà popolare sia chiara, resta al vertice delle forze armate, poi diventa senatore a vita (arrestato a Londra per crimini contro l’umanità non verrà mai processato e morirà d’infarto nel 2006 a 91 anni da uomo libero).