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Tra il 1935 e il 1939 25 milioni di americani andarono a teatro grazie al Federal Theater Project, che era sostenuto dalla first lady Eleanor Roosevelt e si basava sullo sviluppo di compagnie itineranti e di compagnie regionali; 13.000 attori furono impegnati nella rappresentazione della crisi economica e delle sue conseguenze; 7.000 scrittori girarono per tutto il Paese raccogliendo le testimonianze orali e riuscendo, tra l’altro, a salvare 2.300 rievocazioni della vita degli schiavi; furono dipinti 2.500 affreschi murali; 2.500 compositori prestarono la loro opera all’interno del programma di educazione popolare musicale; l’attività di migliaia di fotografi e disegnatori permise di testimoniare e di comunicare le sofferenze che la crisi stava generando fra la popolazione.
Tanti numeri importanti, che ci fanno parlare del New Deal non utilizzando indici economici, ma esaminando l’espansione delle attività culturali. Ricordarli permette di farsi un’idea di quanto sia stata imponente la parte del progetto che riguardava questo settore, di cui Roosevelt aveva pragmaticamente colto tutte le potenzialità economiche e verso cui furono orientati investimenti tali da generare gli effetti quantitativi appena ricordati. Ma non solo: anche nella qualità si raggiunsero traguardi importanti, se si pensa che negli affreschi murali s’impegnarono artisti come Pollock e Rothko; che nel mondo dello spettacolo emersero registi come Arthur Miller, Orson Welles, Elia Kazan; che ci s’impegnò nella conservazione di importanti reperti dell’artigianato americano valorizzando anche quanto era stato trasmesso dalle popolazioni autoctone. È stato osservato che, attraverso l’attività degli artisti, si raggiunse un grande risultato: ridare al popolo americano la fiducia nel proprio destino.
Si può immaginare qualcosa di simile per l’Italia del 2020, che sta uscendo, forse, da una grave crisi sanitaria e sta entrando, certamente, in una pesante crisi economica? Purtroppo, nel nostro Paese la crisi generata dalla pandemia da Covid-19 non ha per il momento prodotto uno slancio in questa direzione. Mancano un’idea e un progetto per il nostro Paese, dove il governo sembra prevalentemente orientato a una serie di interventi frammentari a sostegno dell’una o dell’altra categoria di imprenditori e di lavoratori. Dove i settori della cultura sono tra i più colpiti dalle conseguenze del lockdown. Dove la chiusura delle scuole, forse anche necessaria, è stata compiuta con una facilità eccessiva ed è stata prolungata sino alla fine dell’anno scolastico senza troppo discutere. In cui la ripresa delle attività didattiche a settembre è ancora oggetto di proposte discutibili e confuse.
Bisogna cambiare direzione. La cultura, il sapere diffuso sono un bene prezioso: sono l’indice della democrazia e della civiltà di un Paese. Come si afferma giustamente nell’appello firmato da Daniele Archibugi, Laura Pennacchi ed Edoardo Reviglio, è ora necessario che “tutte le risorse disponibili siano impiegate per progettare e realizzare il futuro”.
Occorre programmare investimenti crescenti nell’istruzione, nell’innovazione, nella cultura. Occorre avere un progetto di sviluppo economico e civile del paese che muova da una riflessione sui modelli culturali, sulle forme di produzione e riproduzione del sapere. Che metta al centro l’istruzione e la formazione. Che migliori la qualità dello sviluppo e che favorisca la crescita dei singoli e della loro capacità di compiere scelte autonome, individuali e sociali.
Chiara Acciarini ha fatto parte del secondo governo Prodi in qualità di sottosegretaria al ministero della Famiglia.